Il basso stimolava la mia immaginazione in modo molto diverso dalla tromba. Con quest’ultima sognavo di suonare con i grandi del jazz, di far parte di un’orchestra maestosa, di diventare un uomo rispettabile, elegante e distinto. Non appena presi in mano il basso però diventai un animale. Be’… all’inizio anche un po’ sbruffone, ma sotto sotto un animale.
Non dovevo essere niente di diverso dal piccolo delinquente che ero. Mi trasformai rapidamente e iniziai a essere divorato dal sogno romantico di una vita epica da rock star. Dal primo momento mi ero sentito pronto a sputare sangue per raggiungere quel paradiso. Non sapevo cosa stessi facendo, premevo le corde sui tasti al momento giusto, un po’ come quando coloravo le illustrazioni numerate, ma alla fine me la cavai. Suonai in maniera decente le canzoni degli Anthym, “One Way Woman”, “The Answer” e “Paradox”, con l’energia di una rock star maldestra e immatura che aveva provato per ore davanti allo specchio del corridoio su Laurel Avenue.
Avevo fatto una lezione di basso con Hillel, il quale mi aveva spiegato di usare l’indice e l’anulare della mano destra per pizzicare, alternandoli, come se fossero due gambe che camminavano. Abitavo ad appena qualche isolato da casa sua, dove viveva con la madre e il fratellino, che disegnava fumetti molto creativi.
Hillel e io passavamo ore ad ascoltare i suoi dischi rock: Hendrix, i Led Zeppelin, i Rush, Jeff Beck, i Doors. Mi ero concentrato così tanto sul jazz che tutto era una novità. Hendrix mi colpì dritto al cuore. Sdraiato sul pavimento del soggiorno di Hillel mi innamorai del rock grazie a Houses of the Holy e al libro su M.C. Escher di sua madre. I due ritmi che si fondevano l’uno con l’altro mi sbattevano qua e là come onde impetuose, mi stravolgevano e mi davano nuove forme e ali. Iniziai a guardare alla musica con occhi diversi, a vedere colori e mentalità al posto di note e scale. I sogni da rock star di Hillel splendevano nella stanza ed erano contagiosi. Il suo desiderio mi colpì al petto.
In giro per la Fairfax con lui, mi sentivo orgoglioso di essere suo amico. Un giorno, Hillel mi disse di voler cambiare nome e sceglierne uno da rock star, come David Sandheart. cazzo, david sandheart!!! Annuii serio all’idea e pensai a un nome anche per me: Dash Macallister, Giuseppe Von Skylark o Sigmund Salamander… Flea? Aaah, la bellezza contorta di un ragazzino imbranato che sbocciava. Tutto il tempo passato sul ciglio della strada nella sua macchina ad ascoltare musica, a immaginare le dita sulle corde, la pelle sul manico, in un assoluto stupore.
Jack… un amico su cui ho sempre potuto contare, uno dei pochi… Ha attraversato le fiamme con i suoi demoni ed è riemerso dall’altra parte. La persona più gentile, compassionevole e perspicace che conosca. Cazzo, gli voglio bene.
Conosco Jack Irons dal primo giorno delle scuole medie, alla Carthay Elementary, ma non avrei mai immaginato che ci saremmo riuniti cinque anni dopo per inseguire questo grande sogno adolescenziale. È assurdo quanto siano importanti gli anni della fanciullezza. In seconda superiore eravamo compagni di banco all’ora di inglese (l’unica materia in cui ero bravo, oltre a musica) e quando l’insegnante parlò di Edipo e del “complesso di Edipo” (una sorta di nevrosi collegata con il fare sesso con la propria madre) Jack urlò: «Leccadipo».
Alan Moschulski, cantante e secondo chitarrista degli Anthym, era un tipo interessante. Veniva da una famiglia dello showbusiness cileno, era un ragazzo tranquillo, pantofolaio, sempre chiuso in camera a esercitarsi alla chitarra. Un giorno andai da lui per fare una lezione.
Era un virtuoso e grande appassionato di prog rock, di cui non avevo mai nemmeno sentito parlare. Mi fece ascoltare Allan Holdsworth, Brand X, Pierre Moerlen’s Gong, Genesis, Weather Report, Yes e Bill Bruford. Vi ritrovai la sofisticatezza del jazz e mi aiutò a capire in che modo potevo sperare di ritagliarmi il mio posto nel rock, e cosa potevo fare con il basso elettrico.
Quel giorno Alan mi mostrò una serie di esercizi tecnici, scale e pattern per migliorarmi. Così le mie mani divennero più forti e in poco tempo sentire le corde sotto le dita diventò naturale. Mi aiutò a sviluppare le abilità fisiche necessarie a suonare il ritmo che avevo nel cuore, e ancora oggi prima di ogni concerto faccio gli esercizi che mi insegnò all’epoca. Gli sarò sempre grato, quella fu una giornata magica. Mordevo il freno con il basso in mano, pronto a darci dentro.
da “Acid for the Children” di Flea, HarperCollins, 2021, pagine 448, euro 20
© 2019 Michael Balzary
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