A leggere quotidiani di carta, riviste e siti web, e ad ascoltare telegiornali e trasmissioni di approfondimento, ci siamo improvvisamente riscoperti scansafatiche. Sì perché il tema di punta degli ultimi giorni riguarda i ristoranti, gli alberghi e i bar che non trovano più personale, con tanto di piagnisteo dell’imprenditore di turno, che lamenta la scansafatichezza dell’italico/a giovane sulla tv nazionale. Ora, da un lato ci troviamo di fronte a un format collaudato, come dimostra l’articolo di Arianna Ciccone per Valigia Blu che risale addirittura a giugno 2019, e dall’altro a un fenomeno sui cui numeri (che pure iniziano ad affluire) è giusto nutrire ancora parecchie incertezze, al punto che viene da dire che sì, un problema c’è ed è preoccupante, ma non è che le sparate di alcuni ristoratori stanno ottenendo più spazio del dovuto? La questione inoltre è diventata quasi subito chiacchiericcio pseudo-politico, focalizzandosi sul reddito di cittadinanza, la cassa integrazione, le misure di aiuto al reddito, i bamboccioni, e quanto si stava meglio quando si stava peggio. Buttando tutto in vacca.
Non mi dilungherò nello spiegare perché oggi parecchi giovani che prima finivano nelle maglie dello sfruttamento lavorativo nel settore della ristorazione oggi dicono no, visto che in tanti hanno già risposto in modo puntuale. Ad esempio lo ha fatto bene Samuele Maccolini per The Submarine: È ora di smetterla con le lamentele sui “giovani che non vogliono lavorare”. Preferisco segnalare gli articoli sul tema che ritengo più significativi perché espongono punti di vista laterali e aggiungono qualcosa al dibattito. Uno di questi è l’intervista di Dario De Marco a Beniamino Bilali per Dissapore, Beniamino Bilali: “I giovani hanno ragione, è la ristorazione che deve cambiare mentalità”. A un certo punto Bilali dice una cosa che può apparire scontata, ma non lo è: «Ma chi lo ha detto che il lavoro in cucina è pesante. Non è pesante dai, mica stai andando in miniera. C’è questa retorica della fatica e della sofferenza, delle origini contadine, del padre che ha fatto la fame, del nonno che ha fatto la guerra… Anche basta. Il lavoro in cucina può essere pesante, certo, ma perché deve essere pesante? Perché non si possono fare 8 ore come in tutti i lavori? Evolve la ristorazione, come tutto il resto». Ecco, in queste parole c’è il sacrosanto sgretolarsi di una retorica tossica sulla ristorazione che ci siamo portati dietro per anni, che abbiamo santificato, ripetuto, difeso e promosso ergendo a divinità l’immagine del cuoco spietato, quello che lancia in aria i piatti e si spende in strigliate degne del sergente Hartman in Full Metal Jacket. E uso il plurale perché punto il dito su tutto il settore del giornalismo, dell’editoria, della critica e della scrittura gastronomica, che hanno avallato consapevolmente questa operazione culturale. Diciamolo chiaramente: basta, il cuoco indiavolato è morto e noi non piangeremo al suo funerale.
Nel frattempo nel Regno Unito i problemi sono più o meno gli stessi, ma a complicare il quadro ci si mette pure la Brexit, come scrivono Joanna Partridge e Richard Partington per The Guardian in ‘I can’t recruit chefs’: Brexit and Covid plunge hospitality into crisis. E negli Stati Uniti emerge (lo fa ciclicamente) la questione delle mance ai camerieri, che si erano ridotte di molto durante la pandemia e, anche se stanno di nuovo crescendo, continuano a rappresentare il nodo più scoperto di un sistema in crisi: ne ha scritto Chris Crowley per GrubStreet in Now Is Not the Time to Skimp on Tips.
Di recente si sta parlando anche di sessismo nel mondo della birra artigianale. La discussione arriva, come spesso accade, dagli Stati Uniti. Ma anche in Italia si sta aprendo il dibattito, a cui partecipa questo articolo di Giorgia Cannarella per Munchies: Com’è lavorare nel mondo della birra artigianale quando sei una donna.
Chiudo con un articolo per il New Yorker di Adam Gopnik, autore che segnalerei anche se scrivesse un pezzo su come eliminare in modo efficace i peli del naso. In questo caso fortunatamente parla della sua New York e del ritorno alla normalità dei cittadini della Grande Mela, occupandosi di ristorazione: How a City Comes Back to Life.