A pagina 84 ho smesso di essere figlia unica. Che è un trauma non da poco per una che lo è stata per quasi quarantanove anni, ma soprattutto che ha fondato la propria identità asociale sull’essere figlia unica.
No, non puoi assaggiare i miei spaghetti. No, non perché ho paura del contagio: perché sono figlia unica, non divido il cibo.
No, non puoi avere la mia terza copia del dvd di “Mariti e mogli”. No, neanche se i dvd non li uso più: sono figlia unica, non impresto i giocattoli.
Tutto questo fino a un tavolino al quale stavo bevendo un vino abruzzese, tutto questo finché, a pagina 84 di “Cose da fare a Francoforte quando sei morto“, Matteo Codignola non parla di me.
Sì, lo so cosa state per dire: ma per te tutto parla di te, è una patologia della psiche costante, sarà mica un evento degno di nota.
Detesto i vocabolari. Li detesto da quel giorno in cui ben due vicedirettori del giornale per cui scrivevo mi scempiarono un articolo (su un discorso di D’Alema, nientemeno) aggiungendo una «i» a «beneficenza». Quando la mattina successiva entrai in redazione ululando la richiesta dello scalpo dell’analfabeta che aveva fatto uscire un mio articolo scempiato da «beneficienza», uno dei due guardò l’altro, ed essi inscenarono il seguente scambio da ritiro della licenza elementare. «Ma ti avevo detto di guardare sul dizionario, mi hai detto che era con la “i”», «Ah, ma io ho guardato “efficienza”».
Ma che c’entra il povero dizionario, pigoleranno i miei piccoli lettori, se i due graduati analfabeti non lo sapevano consultare. Semmai il problema è che uno arrivi a fare il vicedirettore d’un giornale senza sapere come si scrivano le parole e bisognoso del vocabolario, cercheranno di consolarmi i miei piccoli lettori.
Ennò, cari miei. Perché il vocabolario, all’analfabeta di turno, non dice mai «Torna a scuola». Il vocabolario gli dice «più raro», ed egli non sa che è sinonimo di «ciuco». E infatti dieci secondi dopo gli analfabeti di «beneficienza» erano già lì che mi dicevano di non rompere i coglioni, giacché il vocabolario mica diceva «sbagliato»: diceva «più raro». Vocabolari, io vi odio.
Ora, la più demente istruzione da vocabolario, una scemenza di cui nessuna persona istruita è mai riuscita a darmi una motivazione valida, è che «ahimé» si scriva con l’accento grave, ovvero (soffro solo a doverlo trascrivere come esempio d’orrore) «ahimè» (prima «beneficienza», poi questo: morrò di crepacuore prima di aver completato l’articolo).
La questione è semplice, e attiene non alla mia insofferenza per i dizionari ma alla mia venerazione per la dizione. «Me» e «te» si pronunciano con la «e» acuta: perché diavolo «ahimé» e «ahité» dovrebbero avere l’accento grave?
Questa è la prima volta che scrivo «ahimé» in un articolo, giacché ogni ossessiva tenta di prevenire le proprie prevedibili sofferenze, e io so che qualunque caporedattore me lo scempierebbe mettendogli l’accento grave. E sarebbe anche rinfrancato, dai dizionari criminali, nella convinzione d’essere dalla parte del giusto.
In genere i capiredattori che ti scempiano le parole vengono smentiti dai dizionari, ma neanche questo basta. Una volta litigai una settimana su un «pasticcieri» che l’analfabetismo del caporedattore del caso aveva mutato in «pasticceri»: sì, al singolare c’è la «i», argomentava il derelitto, ma evidentemente il plurale è un’eccezione e la perde, sennò l’associazione pasticcieri sul suo sito non lo scriverebbe senza (gente pagata per saper l’italiano mutua l’ortografia da gente pagata per tirare la sfoglia: cosa mai potrà andar storto).
Nessun esempio di mestieri – tramvieri ferrovieri carpentieri – bastava a convincere il tapino. «Tu hai modo di dimostrarmi che non è un’eccezione?», chiedeva con la convinzione con cui uno del nido del cuculo ti chiede di provargli una sua fantasia. (Inspiegabilmente, non scrivo più per quel giornale).
Un’altra volta litigai con una caporedattrice che mi tolse la «i» dalla ricetta della crema pasticciera della Callas (che sul quaderno della Callas era scritta giusta, giacché le soprano conoscono l’ortografia meglio delle giornaliste). La sventurata mi disse che la grafia della parola era stata oggetto di grandi dibattiti in redazione, e alla fine avevano optato per rendere la crema «pasticcera». (Incredibilmente, non scrivo più neanche per quel giornale).
Dev’esserci una maledizione sui termini che hanno a che fare con la pasticceria, nei giornali, e questa è la ragione per cui mi guardo bene dall’utilizzarli (le righe che avete appena letto costituiscono un’eccezione). Figuriamoci se uso un termine che pure i vocabolari scempiano.
E insomma a pagina 83 Codignola sta parlando dei redattori che rivedono il testo del tuo libro, e annotano quel che secondo loro hai sbagliato, e tra pagina 83 e pagina 84 trascrive il biglietto che gli ha scritto la redattrice d’un suo testo (le redattrici dei libri sono più civili di quelle dei giornali: prima di scempiare t’avvisano): «Caro Matteo, ti invio il tuo testo, nel quale ti segnalo alcuni minuscoli interventi. Aggiungo solo che troverai un “Ahimé” che diventa un “Ahimè”; sono in genere molto devota all’ortodossia praticata dai vocabolari, che in questo caso suggeriscono di norma l’accento grave, ma rilevo che la Treccani non esclude in toto la formula da te prescelta, pur chiosandola con un vago, e dequalificante, oggi com. anche (trovo che potevano essere più precisi); questo per dirti che se hai motivi per preferirla, torno subito sui miei passi e ripristiniamo l’accento acuto».
Al paragrafo successivo, e dopo aver notato che anche quell’infame del correttore di Word glielo segna come errore (o forse è Pages, vuoi che in Adelphi non usino Pages? Lo uso persino io, che di Adelphi mi limito a essere feticista, e sì, anche a me lo dà errore: maledetti programmi di scrittura, siete analfabeti quanto i dizionari) – al paragrafo successivo, dicevo, Codignola legge a voce alta, e decide che l’accento acuto è quello giusto. Divenendo così mio fratello.
Poi certo, in “Cose da fare a Francoforte quando sei morto” ci sono un sacco d’altre chicche. La spiegazione del perché in editoria siano perlopiù cialtroni (i best and brightest, dice Codignola – che perciò verrebbe insultato su Twitter dagli offesi in-quanto-laureati-del-Dams, se solo quelli che stanno su Twitter leggessero libri – i best and brightest mica fanno roba tipo Lettere: fanno Medicina, Fisica Teorica, roba seria).
Il patto col lettore: «Io ti do sedici e cinquanta, […] tu mi fai guardare, per un paio d’ore, qualcosa che non siano gli scaffali coi libri sbagliati, o i calendari della Polizia di Stato, alle spalle dei virologi».
La smaniosità degli autori: «Gli autori sono insoddisfatti per definizione dei loro editori, che accusano un giorno sì e l’altro anche di non fare abbastanza per loro. Se devo essere sincero, in tanti anni non ho mai capito che cavolo dovremmo fare».
La grande consolazione di chi ha copertine sbagliate (cioè tutti quelli non pubblicati da Adelphi): «Le copertine invecchiano, e dopo un paio di edizioni in genere si cambiano, quasi tutte. I titoli no». Qui ho pensato intensamente a quell’editore che sosteneva “L’era della suscettibilità” non fosse un titolo, confesso.
Contiene, il tomo di Codignola, persino parole definitive sull’Antico Testamento: «Una mia nonna diceva che a parte Erodoto e Tacito tutto il resto erano balle di pastori analfabeti».
Se vi chiedete perché, prima di ricopiarvi alcune delizie del libro di Codignola, mi sia dilungata per cento righe sulle mie ossessioni ortografiche, e senza neanche farvi capire di cosa parla ‘sto benedetto romanzo («è o non è un libro che darà a questo porco paese perennemente in costruzione quello che nemmeno sapeva di poter avere, cioè il romanzo moderno?»), vi faccio rispondere dall’io narrante dell’autore: «Come sempre il senso del limite, che non posseggo, mi aveva tradito».