Mio padre montò in bestia non tanto per il mio labbro che se anche avevo perso un po’ di sangue si vedeva che era una cosa da niente, una stupidata, e nemmeno perché avevo scassato l’orologio, quello svizzero d’oro, che m’aveva regalato con molta scena per la licenza ginnasiale qualche mese fa: ma perché, diceva, gli avevo raccontato una balla.
Lui quella storia che avevo sbattuto contro la porta del cinema perché mentre io entravo c’era gente che veniva fuori: no, non la beveva. E se c’era una cosa che gli dava fastidio è che io lo prendessi per scemo: perché lo prendevo proprio per scemo se pensavo che lui potesse credere alle mie baggianate. Era molto meglio che gli dicessi come erano andate le cose, tanto lui se l’immaginava che avevo fatto a pugni con quel mio compagno, come si chiamava? il Moretti.
Gli risposi che aveva ragione, era andata proprio così: avevo litigato col Moretti per una discussione su Angelillo e Nicolé. Non era vero naturalmente neanche quello, ma non potevo raccontargli tutta la rava e la fava, perché sarebbe saltato fuori il Mangia e non volevo.
Lui per fortuna il Mangia non lo conosce, anche perché non è uno di quei ragazzi che si possono portare in casa e presentare così come se niente fosse facendolo passare per un compagno di scuola: e non perché è conciato nel vestire, che anzi lui ci tiene moltissimo, o perché non riesce a parlare un italiano quasi uguale al nostro, ma per la semplice ragione che avrebbe cercato di fregare subito una qualche roba, magari anche inutile. Non è che sia cleptomane: lui stesso ci tiene a dichiarare che fa il ladro di mestiere: «Uéi Mangia! che lavoro fai?»
«El gratta…» risponde regolarmente.
Mi vien da ridere, del resto, se penso a cosa sarebbe successo a casa mia il giorno in cui fossi arrivato accompagnato dal Mangia. Per prima cosa tentando di fare un complimento a mia madre lui avrebbe detto: «Oheilà! Ci hai ancora una bella vecchia!» e mia madre si sarebbe automaticamente messa a piangere o a inveire che sono le due cose che le riescono meglio.
E in questo bisogna dire che le nostre due madri, la mia e quella del Mangia, sono proprio completamente diverse perché quando sente che suo figlio la chiama «la mia vecchia» alla madre del Mangia sale la commozione in gola e le vengono i lucciconi agli occhi, ma per la gioia. Adesso da qualche tempo sta di casa in via Filangieri al due, che è la via dove qui a Milano hanno costruito le prigioni e sembra che ogni volta che il figlio va a farle visita lei s’intenerisce, qualsiasi cosa lui le racconti e solo una volta si dice che s’è incazzata: quando quello s’è dimenticato di portarle i wafers al cioccolato, che ne va matta. Nonostante le apparenze è una donna molto simpatica e al due c’è finita per caso e neanche per reati poi tanto gravi: procurato aborto o roba del genere per quanto il Mangia continua a giurare che c’è andata per fatti di politica.
Ora tutte queste cose io a mio padre non gliele posso dire: non che i miei siano snob e anzi lui, mio padre, è tutto l’opposto di quei tipi che scendono con falsa disinvoltura da un’Alfa e ci mettono un’ora buona per vuotare un bicchiere d’aperitivo al banco di un bar importante. Ma il fatto di essere ingegnere in una grossa ditta gli ha messo addosso un sacco di complessi: relazioni società conoscenze eccetera e io so benissimo che lui i miei amici, quelli che mi son scelto io, non li può capire e figuriamoci se me li lascerebbe frequentare, anche perché non ci ha una mentalità un po’ plastica altrimenti gliene avrei anche parlato io stesso.
Intendiamoci: non è che io frequenti gente equivoca, son tutti bravi ragazzi belli come il sole, magari in mezzo ci potrà anche essere qualche pregiudicato, può darsi benissimo, ma quelli se vogliamo si possono trovare dappertutto. Anche i posti, i posti dove vado qualche volta, non si può dire che siano postacci: il Mangia per esempio l’ho conosciuto in un bar di via Torino, una mattina che ho bigiato a scuola: e entro appunto in questo bar dove c’è una saletta con il biliardo e mi metto a guardare dei giovanotti che stanno giocando e m’è sembrato anche con una certa abilità.
Siccome poi mentre sono lì sento che un tizio piuttosto grasso e tarchiato con i capelli tagliati a spazzola viene chiamato «il Mangia» m’incuriosisco e chiedo a un tipo:
«Perché lo chiamano Mangia?» e quello mi risponde:
«Perché mangia». Dato che la cosa mi sembra incoerente e il tipo poco loquace non insisto.
Ma è lo stesso Mangia che appena fi nito di vincere la sua partita dà un’occhiata in giro e si rivolge a me: «Uéi sbarbato! te la senti di giocarcela?»
Capisco che la sua è un po’ una domanda da presa per il culo ma nonostante quello e nonostante anche che gli altri giovanotti mi stanno guardando con la stessa curiosità sorridente con la quale noialtri a scuola filiamo le ragazze quando vanno al gabinetto rispondo «volentieri»: ed è un volentieri che mi rimane un po’ in mezzo alla gola, se ne accorgono tutti e io non so perché ma mi sento a disagio, e anche se volto le spalle allo specchio sarei pronto a giurare che devo essere diventato rosso. Mi levo il paltò che forse è veramente troppo elegante, eppure mia madre me l’aveva detto: «Per andare a scuola la mattina potresti mettere il paltò dell’anno scorso», lascio i libri su un tavolino e trovo la forza di chiedergli in un tono che vorrebbe essere deciso perché mi ha chiamato sbarbato.
Lui si mette a ridere e siccome tutti gli altri gli van dietro fingo anch’io di trovare che è una cosa spiritosa e così incominciamo a giocare. Vinco naturalmente la prima partita e quando il Mangia, tutto pieno di sottintesi, commenta: «Oehilà! si difende lo sbarbato!» e gli altri si mettono subito a ghignare, riesco a trattenermi dal dirgli chiaro e netto che ho capito che perderò la seconda e che mi farà perdere anche la bella. Come avviene infatti, regolare, dopodiché lui mi chiede se per caso non conosco qualche altro giochino, come la concia o le tre monete o qualsiasi altra cosa io volessi giocare. Preferisco dir di no, subisco, e lui s’intasca le settecentocinquanta lire di posta e mi si appiccica dietro e così usciamo dal bar e facciamo un pezzo di strada assieme: ecco com’è nata la mia amicizia col Mangia, tutto qua.
È proprio perché siamo diversi che io piaccio al Mangia e lui piace a me: lui, l’ho capita, è orgoglioso di farsi vedere in giro con un tipo vestito più che decentemente, al quale un po’ di grana in tasca avanza sempre, che ha una famiglia regolare e parla l’italiano senza che si capisca subito da che parte d’Italia arriva. Ci tiene a avere per amico uno che ha il padre che va in macchina e la madre che gli raccomanda di non saltare la merenda. E sarebbe stupido negare che io non senta una specie di fascino o chiamatelo come volete per questo giovanotto grasso ma tarchiato con i capelli tagliati a spazzola, che rutta con un’abilità bestiale, a comando, quando vuole, come se ci avesse un pulsante sull’ombelico: basta che lo schiacci e vien fuori uno di quei rumori! incredibile. Se poi gli dico che non sta bene, perché andiamo! il ruttare non sta, lui spalanca gli occhi e si stupisce: «Perché, cos’è, ti dà fastidio?» È inutile che gli spieghi che potrebbe anche darmi fastidio, e poi mi fa rabbia perché io non lo so fare: ci ho anche provato, da solo, ma a me viene da ruttare unicamente quando ho bisogno, e mai così forte: sarà una questione di stomaco e d’allenamento.
Però ho notato che lui mi ammira molto per il fatto che io abito in centro, in corso Italia a due passi dal Duomo, una zona fantastica per un tipo come lui che sta alla Baia, alla penultima fermata del capolinea del tram numero tre, di fronte a una chiesa rossa dove credo sia entrato una sola volta: il giorno che l’hanno battezzato. Io sono stato battezzato in San Babila, il meglio in fatto di parrocchie eleganti, e mia madre ricorda sempre che quel giorno la chiesa pareva una serra.
Lui poi ha diciottanni, due più di me, e conosce le puttane: stasera appunto che mio padre m’ha lasciato uscire per andare al cinema col Moretti, me ne ha presentata una, una certa Trieste, ma è stata una conoscenza così, veloce, senza niente di concreto, perché la Trieste che lavora vicino a un ponte nei paraggi di via Montegani ci aveva piuttosto da fare e siccome il Mangia ha un principio: quello che le donne non bisogna mai pagarle, così ci ha mandato a dar via eccetera eccetera eccetera. E ci saremmo andati subito, tanto più che il Mangia ha anche quella risorsa lì, se non fosse piovuto lì un tizio su una moto con lo scappamento aperto.
Come lo vede il Mangia mi branca per una manica e mi fa: «Adesso c’è da ridere». Il tizio sceso dalla moto comincia a girare attorno alla Trieste per darle fastidio, prima così alla lontana, chiedendole se non ci avesse paura a star fuori a quell’ora, lì alla sua età, che bisognava che stesse attenta che c’era dell’umidità in giro e se poi si beccava una malattia? Non era meglio che si ritirasse su in casa? lui lo diceva per lei. Ma la Trieste lo lascia parlare e fa finta che quello non sia nemmeno presente, poi sorride a noi e come se facesse un discorso che non c’entra per niente ci dice che è davvero un peccato che tutti i matti non sono al manicomio e che lei è stupida una volta ma due no di sicuro.
È qui, su quest’ultima frase, che il tizio incomincia a scaldarsi e a voce piuttosto altina le grida che va a finire che lui le rompe tutto quello che non ci ha ancora di rotto e che le concia la faccia in una maniera tale che dopo non la riconosce neanche quel bastardo di suo figlio. La Trieste si decide a rispondergli e gli domanda se si può sapere che cosa vuole: «Ma chi ti conosce a te? chi lo conosce quello lì? dài, dài scarligare… l’è inütil che te vegnet chi a fà el preputent!»
«Chi l’è el preputent, chi?!» chiede il tizio e d’improvviso piglia il braccio della Trieste e comincia a girarlo, un po’ come fanno le lavandaie con la biancheria del bucato, mentre lei spaventata poverina si mette a urlare e chiede aiuto alla Madonna e alla pula. Ma lì così in quel momento non c’è nessuno dei due e al Mangia viene l’idea di sostituirli e si mette in mezzo e dice al tizio di mollare, di mollare la presa. Ma quello risponde che quelli son cavoli suoi: «E ti fà minga tant el ganassa che io so quello che faccio, lo so, va bene?»
È qui che il Mangia deciso senza riflettere gli dà un urtone e quello molla la Trieste e pak! gli lascia andare una sberla, e da qui cominciano tutti e due, un colpo uno un colpo l’altro. Intanto anche se la zona non è di quelle molto frequentate a quell’ora lì, s’è fermata della gente e sento che stan chiedendo: cos’è successo? perché? E poi uno dice che è ora di piantarla lì tutte le sere succede qualcosa, ma la maggioranza se ne frega e sta lì a guardare per vedere come va a finire.
La Trieste che ha smesso di urlare ma che ci ha gli occhi pieni di paura mi vien vicino e mi fa: «E tu dài! non star lì così, chiama il tuo amico! dividili!» Già, mi metto a dividerli io! io che non vorrei neanche esser lì in quel momento, che ci ho più paura di lei. Ma questo non glielo dico, le dico solo: «Li divida lei cosa c’entro io?» e quella chissà cosa le gira mi dà un urtone che a momenti volo per terra. «Puttana!» grido, ma giuro più come un’esclamazione che non per offendere lei. «Puttana a me?!» fa e tenta di darmi una sberla che io tento di non farmi dare e proprio in quel momento il tizio che si sta rotolando a terra col Mangia si mette a gridare: «Quel vigliacco di sbarbato del tuo amico picchia le donne!» e molla il Mangia, si rialza in un secondo e mi fa partire un cazzotto che non faccio neanche in tempo a schivare e che mi arriva in piena bocca, nello stesso momento non capisco come mai mi si smolla il cinturino e mi cade a terra l’orologio.
C’è di buono che a quel punto qualcuno caccia la balla che sta arrivando la pula: la Trieste piglia su e fa una gran fuga mentre il Mangia, io e il tizio come vecchi amici ci muoviamo veloci verso un barettino da quelle parti. Io ho ancora il respiro pesante e avrei una gran voglia di essere già a casa mia, l’orologio intanto sento che non va più e il labbro mi si sta gonfiando e vedo che c’è anche un po’ di sangue, mica tanto ma però mi fa sempre impressione.
Il tizio potrebbe essere di un paio d’anni più vecchio del Mangia, è anche più alto e si dà l’aria di saperne di più. Nessuno dei due mi sembra scosso per quello che è successo, anzi sono calmissimi come se fosse roba da tutti i giorni, non so come fanno a controllarsi in quel modo. «Siamo stati proprio dei bei loffi a fare a cazzotti per una mina così!» fa il tizio e si mette a ridere e ci guarda come per dire: che cretini… ma siamo complici!
Anche il Mangia ride, io non ce n’ho mica tanta voglia perché mi fa male il labbro e son preoccupato per l’orologio.
«Fa’ vedere», mi chiede il Mangia alzandomi la faccia e mettendomi un dito agli angoli della bocca «no, non è niente, un po’ d’acqua fresca. E il tuo tic di polenta?» Eh, il mio tic di polenta come lo chiama lui deve avere il bilanciere spaccato in due. Il tizio si presenta: dice che lui si chiama Cavéi e che conosce il Mangia di vista. Il Mangia risponde che anche per lui non è una faccia nuova e che comunque lui si chiama Mangia e che a me mi chiama Sbarbato: «Non sapevo», continua, «che tu ci avevi quella lì». «Anche quella lì», precisa il Cavéi calcando molto sull’anche, «adesso ce n’ho giù una a Porta Genova: con lei marcio tranquillo a tre chili al giorno.»
«E la Trieste lo sa?» chiede il Mangia.
«Aaaah non lo so, non m’interessa. La Trieste non è un tipo di donna che va bene per me. Perché non è mica fedele, eh? no no, adesso s’è messa a far la beneficenza: fa l’amore con gli sbarbati, così, senza farsi pagare, solo perché ci prova gusto…»
«È un po’ grave la cosa», fa il Mangia.
«Sì, ma la mollo, figurati… ce ne ho così, in giro! Anzi se vuoi se t’interessa se vieni giù domani verso le cinque al Colorado, lì dove ci stanno i biliardini… te sêt in dua l’é, no? te ne presenti vôna che è in cerca… quello che ci aveva prima l’ha piantata per un giro più largo.»
«Com’è?»
«Ba’, insomma. È una ragazza seria.»
«Ma sgrana?»
«E…» dico, «non ce ne avanzerebbe una anche per me?
Si mettono a sghignazzare tutti e due. Il Cavéi sostiene che son troppo giovane.
«Benché», fa poi, dopo averci pensato su un momento, «benché ci sarebbe una tipa che tu le andresti bene.
Momento, intendiamoci: una donna a posto, sposata, che non batte, ma ci ha il debole per i pivelli: poi tu sei anche biondo, saresti anche il suo tipo, lei li preferisce biondi.
Però va’ che lì… niente grano, al massimo un regalino ogni tanto.»
«Oh per me van bene anche i regalini… basta che non sia molto di sopra dei quaranta…»
«No no, per questo no, è fior di mina non so, credo che adesso avrà ventinove trentanni. Le vanno gli sbarbati. Io ci sono stato una volta anch’io, tre anni fa. Il marito lavora all’azienda tranviaria: lui sa della moglie ma se ne frega.»
«Fa bene!» sentenzia il Mangia.
Mentre siamo lì così nel barettino a parlare vien dentro la Trieste, io penso che se adesso si ricomincia è un bel guaio perché per me è arrivata l’ora di tornare a casa, che i cinema al massimo a mezzanotte emmezza han finito e mancan cinque a mezzanotte. Ma la Trieste è tutta allegra e paga lei da bere, tirando fuori i soldi da una borsetta nera che prima non avevo notato, una borsa fabbricata con un materiale che dev’essere una via di mezzo tra il cuoio e il cartone. È proprio allegra, sorride con impegno e si guarda in giro benché nel bar non c’è rimasto più nessuno oltre a noialtri e al padrone che sta appoggiato dietro al banco e fuma senza accorgersene.
Vicino alla porta c’è uno specchio molto largo con appiccicate due réclame e la Trieste prova a guardarsi dentro: si aggiusta un po’ i capelli, si accarezza le guance: forse pensa che son troppo rosse, accende una sigaretta e ne passa una anche a noi, poi allarga gli occhi mezzi malinconici e mezzi cattivi: «Siete stati dei bei bamba», fa un po’ civetta, «a fare a cazzotti per me».
«L’abbiamo già detto», dice il Cavéi, duro.
La comitiva si scioglie. Chiedo al Cavéi uno strappo fino a casa dato che ha la moto. Mentre m’accompagna lui continua a parlare ma non riesco a capire molto perché l’aria taglia le parole a metà. Ma ho idea che si tratti di una storia dolorosa perché quando ferma la moto davanti al portone di casa mia mi chiede cinque gambe in prestito, però m’assicura che ne ha proprio bisogno, domani me le dà, gli dispiace di chiedermele perché lui di solito non scherma mai la grana agli amici. Una corsa in taxi mi sarebbe costata meno: con molta gentilezza gli dico che non ce li ho: lui dà dentro un paio d’accelerate e riparte, credo convinto.
Prima di salire su in casa arrivo un momento fino all’angolo dove c’è il tabaccaio e compro una bustina di mentine perché non voglio che i miei si accorgano dall’alito che ho fumato.
Appena mi vede mio padre monta appunto in bestia e mia madre che in principio s’era spaventata quando capisce che non è niente si mette a gridare anche lei: che siamo maneschi, dei ragazzacci ecco che cosa siamo, lei vorrebbe sapere che cosa impariamo a scuola, e intanto incomincia a spalmarmi la bocca con una pomata alla penicillina per scongiurare l’infezione o il tetano o qualcosa del genere molto grave, e poi m’assicura che me lo posso dimenticare di andarmene al cinema un’altra volta la sera da solo, che lei non mi ci manda più. Mi chiede che cosa gli ho fatto al Moretti, se s’è fatto male, e che quasi quasi lei telefona a sua madre per sapere: per fortuna mio padre dice che non è il caso a mezzanotte emmezza, e che certo son cose da ragazzi di strada, lui si meraviglia altamente, ma insomma per due pugni… non è la morte di nessuno: così la prossima volta imparo e sto più attento. «Ad ogni modo», ci tiene a precisarmelo, «tu la sera al cinema ci vai con noi o niente.
E se ci hai da studiare con qualche compagno fallo pure venire qua a casa… Che vengano loro… che io credo che tu non abbia da vergognarti della tua casa, anzi… è chiaro?»
È chiarissimo, non chiaro: non mi lasciano più uscire la sera da solo. Sempre con loro dietro. Sai che bello! Mi resta il pomeriggio ma quello è stupido e poi devo anche studiare. Così per me non ho più niente, neanche la domenica perché mio padre mi porta alla partita. Già, alla partita, è una bella solfa anche quella lì: mio padre s’è convinto, chi lo sa perché, che io sono un tifoso sfegatato dell’Inter.
Forse perché lo è lui, ah lui sì, ma sfegatato sul serio: e allora s’immagina che lo debba essere anch’io: e mi porta con sé alla partita fi n da quando ero piccolo, che giochi il Milan o l’Inter non ha importanza, certissimo di farmi un regalo, sicuro che mi diverto. A Sansiro lui si scalda, si alza in piedi, si mette a urlare, qualsiasi cosa che faccia l’arbitro non ce n’è mai una che gli vada bene: io ci ho vergogna quando fa così, meno male che gli altri attorno chi più chi meno fanno come lui. Poi ogni tanto si volta verso di me, per spiegarmi, per paura che non segua bene perché vuole che non perda niente, o magari per dirmi che finché quelli insistono a tener dentro quel lavativo di Skoglund: «…non vedi che sembra che faccia apposta a sbatter via la palla?! Ma cosa aspettano a cacciarlo via quello lì, svedese dell’ostia!» e s’incazza, pesta i piedi, si mette improvvisamente a ridere rassegnato: «Tss! ma perché noi dobbiamo giocare sempre senza portiere? ce n’avevano uno: Ghezzi. No, l’han dato al Genova… Ah… ah… ah… è roba da matti! non si possono regalare le partite in questo modo!»
Vedendolo così preso non ci ho mai avuto il coraggio di dirgli che non me ne fregava niente: per questo lui pensa che ci tengo anch’io, che ci abbia la sua stessa manìa, e insiste a parlarmi di mediani che vanno assolutamente spostati a mezzala o di riserve che devono prendere il posto dei titolari, e si accanisce ma si accanisce in un modo tale quando discute di ste cose che mi fa proprio pena e non me la sento proprio di dargli un dolore e di dirgli che per me il calcio nebbia, e che l’Inter può anche andare in B, per me, che io vivo benone lo stesso.
Il labbro adesso non mi fa neanche più male. Mi fa male invece pensare che quelli non mi lasciano più uscire la sera solo: non per niente ma mi piaceva: quando mi lasciavano, ogni tanto, ero contento. Non so neanch’io il perché, non è per il fatto di trovarsi con gli amici, ma… non so, adesso forse dirò una stupidaggine ma trovo che l’ambiente l’aria della sera ha qualcosa di diverso, di più eccitante: che gusto c’è a uscire il pomeriggio?
da “Lo sbarbato”, di Umberto Simonetta, Baldini + Castoldi, 2021, pagine 212, euro 16