Sono andata via da Bologna nel settembre del 1991, tra tre mesi saranno trent’anni, esisteva ancora la mistica di Bologna città più civile del mondo. Sono andata a vivere nella città meno civile del mondo, Roma, eppure persino lì in centro non c’erano i cassonetti: c’era la raccolta porta a porta dei rifiuti.
Adesso quelli che vivono ancora a Bologna dicono che è peggiorata, che è una città pericolosa, che non è più come una volta, che signora mia. Ma io so che è solo il com’era-verde-la-mia-valle di noialtri anziani, so che Bologna è sempre identica a sé stessa, Bologna bambina per bene Bologna busona.
Nel 2021, Bologna è un baluardo novecentesco in cui carica di bottiglie devi andare a cercarti il tuo bravo cassonetto perché – nel 2021, ripetiamolo finché sembra vero – a Bologna non ritirano il vetro (né il resto) a domicilio.
«Ma in che senso?», ho chiesto a un proprietario d’immobili che mi magnificava il fatto che i suoi palazzi avessero tutti cassonetti vicini e quindi coi sacchetti non si dovesse fare molta strada. E lui, che ha sempre vissuto in quella bohème confortevole, non capiva la domanda: quando abiti una relazione disfunzionale, le sue magagne ti sembrano la norma.
Nei momenti di sconforto, sempre più frequenti, io vado a guardare l’Instagram di Matteo Lepore, che domenica ha vinto le primarie bolognesi e sarà il candidato sindaco del Pd a settembre. Lepore ha amministrato Bologna finora, è stato assessore alla cultura, anche se non lo diresti mai: parla come se non avesse mai avuto alcuna responsabilità amministrativa. Abbiamo qualche problema coi rifiuti, l’ho sentito dire in una diretta Instagram con una sfoglina (sono le signore che tirano la sfoglia, lo specifico per chi non è madrelingua emiliano, poveri voi). La signora, gentile, non gli ha detto: eh, magari potevate fare qualcosa per risolverlo finora. Forse Bologna è una regola che sapevi soltanto tu.
Il giorno prima delle primarie, praticamente tutti quelli che conosco mi hanno mandato un post di Lepore (l’avevo visto, ma agli esseri umani piace infierire). C’era lui con in braccio una figlia, camminava immagino verso casa di sera (era buio), come tutti i padri nella storia del mondo hanno fatto, nei beati anni in cui se ci addormentavamo in macchina all’arrivo nessuno ci svegliava, ma ci portavano in braccio fino al nostro letto, la comodità più rimpianta da qualunque adulto di buon senso.
Sotto, c’era quello che sembrava un temino delle medie, ma era la traduzione di Working on a dream, un Bruce Springsteen minore. Ho improvvisamente capito cosa intende De Gregori quando dice che le parole delle canzoni non vanno considerate senza la musica. Trascritta e tradotta, Working on a dream era d’imbarazzante sentimentalismo. O forse è che fare il sindaco di Bologna non sembra un sogno all’altezza, o forse è che dire a tua figlia che sei là fuori a lottare per un sogno e quindi a casa ti vede meno è quello spirito motivazionale di cui sono così sature le riviste femminili che vederlo anche sui social dei maschi produce sfinimento.
A un certo punto ho visto, sull’Instagram di Lepore, un’intervista in cui spiegava cos’avrebbe fatto per la musica a Bologna. A parte che non si capisce cosa un comune debba fare per la musica – forse darle degli spazi in cui esistere, ma quelli a Bologna non sono mai mancati – sa cosa manca, caro sindaco poeta? La raccolta del vetro a domicilio. È per quella che deve fare qualcosa, non per favorire l’esistenza d’un nuovo Guccini o d’un nuovo Dalla: quelli si favoriscono da soli; li favorisce il talento, ad avercelo.
Qualche giorno fa ho mangiato una piadina in zona universitaria. Era buonissima – vino rosso nell’impasto della piada, e cipolla caramellata e guanciale nel ripieno: e tutto questo senza che la giunta bolognese abbia fatto niente per il settore delle piadine, incredibile – e tutt’intorno al nostro tavolo i cestini debordavano. Non è solo la mancanza della raccolta porta a porta (scusate se mi ripeto: nel 2021); è anche che i cassonetti li apri con la tessera comunale, e tre quarti dei palazzi del centro di Bologna sono affittati in nero a studenti universitari, che non hanno residenza né tessera, e quindi il rusco (a Bologna la spazzatura si chiama così) lo buttano nei cestini. Ma ci dica, sindaco: cosa farà per la musica?
Il mio sogno è un politico senza social. Uno che capisca che Instagram non serve alla raccolta di consenso: serve a farsi prendere per il culo. Domenica notte, dopo aver ammirato Roberto Gualtieri che aveva fatto solo una sobria storia ricordando le primarie di Roma, sono andata a vedere le mille sull’account di Lepore. In una diceva «Bologna è un grande “noi” stampato nella pianura padana». Volevo concentrarmi sul fatto che «Noi» fosse il titolo d’un libro di Veltroni e fare qualche sapida battuta in merito, ma non potevo.
Non potevo perché il discorso veniva fatto con la mascherina fucsia abbassata, e la mascherina fucsia per me è un ricordo doloroso come per certi vecchi comunisti è la Bolognina.
La mascherina fucsia, ha raccontato Lepore tempo fa a Repubblica, nasce perché la sua compagna è cliente di Cristina Fogazzi, l’estetista cinica, che le metteva in omaggio nei pacchi in cui venivano consegnati i suoi prodotti. Un giorno, ha detto Lepore senza mettersi a ridere, la donna di casa gliel’ha data dicendo, cito a memoria: mettiti questa, così capisci cosa significa essere donna.
Qualcuno deve aver detto a Lepore che questa scemenza funzionava, e quindi s’è fatto tutta la campagna elettorale con le mascherine fucsia. No, non ha fatto un ordine di creme al giorno come credevano gli ottimisti, né ha tenuto la stessa mascherina per mesi come credevano i pessimisti: se le è comprate, fucsia. Giacché il candidato sindaco della sinistra per Bologna, quel posto in cui sono cresciuta per fortuna ai tempi di Zangheri e non di Instagram, è convinto che le donne (e il problema della ricerca d’un cassonetto dove buttare gli assorbenti) le capisci innanzitutto se metti gli accessori rosa.
Mentre scendo a lasciare la carta in cortile (nella zona di Milano in cui vivo la raccolgono il mercoledì mattina), lascio qui una domanda per il prossimo sindaco di quella città nel cui centro non si perde neanche un bambino. Insieme alla raccolta a domicilio del vetro, non si potrebbe organizzare una consegna del senso del ridicolo? Non che sia un’emergenza solo locale, ma da qualche parte bisogna pur cominciare.