Il commercio è l’anima del commercio, ma pure l’anima del cinema, dello sport, dei monumenti. Da prima di Instagram, oltretutto.
Quarantatré anni fa, Nanni Moretti in “Ecce bombo” sbeffeggiava gli attori che mettevano il pacchetto di sigarette a favore di macchina da presa, in anni in cui pubblicizzare prodotti nei film era teoricamente vietato.
Vent’anni dopo, i saperlalunghisti ci spiegavano che “Sex and the City” era tutt’un product placement, e invece era neorealismo: se volevi scrivere un dialogo verosimile tra donne che parlano di scarpe dovevi citare le marche, se volevi rappresentare una scrittrice di fighettismi metropolitani mica potevi farle usare altro che un computer della Apple.
L’altra sera ho pensato fortissimo a un conoscente che scrive serie per la Rai, e racconta di tutti i giri di parole che tocca fare per non dire le marche, in un mondo in cui tantissimi oggetti quotidiani sono indicati con la marca che li fabbrica.
Stavo guardando una puntata di Rocco Schiavone, il sospetto delinquente fuggiva su una Smart bianca, e i poliziotti segnalavano via radio che il sospetto era a bordo «di un’automobile bianca». Ho pensato come diavolo la trovano se non gli dicono che modello, ho pensato al mio povero conoscente che non può far dire a un personaggio d’aver lasciato la Vespa sotto casa o d’aver letto la tal cosa su Facebook.
Il commercio è l’anima del commercio, ma il prodotto commerciale non inserzionista non può esistere: le colazioni dei personaggi su Rai 1 sono meraviglie di latte scaraffato e biscotti disposti a ventaglio sui piatti. Tra i miei ricordi più cari c’è una suocera che doveva dire che la nuora spendeva troppo in abbigliamento, ma uno stilista disposto a investire in quella mirabile serie purtroppo non c’era, e un nome finto non sarebbe stato evocativo quanto dire «Armani» o «Versace», quindi nel dialogo in onda la suocera diceva in tono eloquente che la nuora «veste Armace».
Il commercio è talmente l’anima del commercio che il product placement nel nuovo video del marito della Ferragni me l’hanno dovuto far notare. Ma non vedi che ci sono loghi Coca Cola in ogni angolo delle riprese, ma non senti che Orietta Berti gorgheggia «labbra rosso Coca Cola». Ah, vedi, non me n’ero accorta. È la Coca Cola, un pezzo di paesaggio contemporaneo, mica un prodotto.
Sere fa mi ha telefonato un editore, sentiva musica alta in sottofondo e quindi mi ha chiesto dove fossi, non avevo una scusa pronta quindi ho detto la verità: sono a una festa di influencer, a villa Necchi Campiglio. Nel suo sospiro c’era la storia d’Italia, c’era il principe di Salina che guarda Calogero Sedara, c’era ogni intellettuale disgustato da un’invasione di territorio dei barbari. «Si sono presi anche villa Necchi», ha detto, e io non ho avuto il coraggio di chiedergli come pensava che il Fai mantenesse una villa degli anni Trenta, se non grazie a gente che può permettersi d’affittarla per una sera a cifre che quelle come me, invitate come copertura intellettuale dai commercianti di cuoricini, guadagnano in un anno.
Ieri pomeriggio in tv passava “Borotalco”, e mi chiedevo se oggi lo intitolerebbero così. E, se sì, solo in cambio di congruo contributo in danaro? E, se sì, ce la si potrebbe cavare col solo titolo subliminale e i due che si cospargono di Borotalco dopo la toilette iniziale, o servirebbero inquadrature della confezione discrete come quelle irrise dal Moretti del ’78? Ma non fa più pubblicità a un prodotto essere il titolo d’un film leggendario, che un’inquadratura dell’etichetta?
Il virale è l’anima del commercio? Se sì, forse Cristiano Ronaldo è il miglior testimonial che la Coca Cola potesse desiderare: dopo lo scandalo della Coca scansata da Ronaldo, l’ha scansata anche Locatelli; invece Pogba ha scansato la birra. Se vuoi diventare titolo di giornale, a questi Europei devi scansare una bottiglia.
Le premesse le conoscete. Ronaldo arriva alla conferenza stampa, scansa le bottiglie di Coca Cola, e dice «agua», una parola così semplice per uno scandalo così scandaloso. Il titolo precipita in Borsa, titolano i giornalisti sciatti (ha perso meno d’un dollaro ad azione: certo, tutte insieme le azioni fanno taluni miliardi, ma sempre meno d’un dollaro è, poco più d’un punto percentuale per ogni azione passata dal valore di 56 dollari e spicci a quello di 55 e spicci).
Non si scontentano gli sponsor, è la prima regola di chiunque, specie in tempi di contrazione pubblicitaria. Sui giornali puoi dare degli assassini ai capi di stato ma non dei poco ispirati agli stilisti, è la prima cosa che impara chiunque al suo primo giorno di redazione (inserite qui il vostro scandalo schienadrittista: lo vedi, i giornali sono pieni di marchette, lo dicevo io, ma a me non la si fa).
Il commercio – di giornali, di partite, di capolavori architettonici, di tutto – qualcuno deve pagarlo, e perché una multinazionale dovrebbe finanziare un evento se poi nelle occasioni ufficiali di quell’evento qualcuno fa capire che il suo prodotto è una porcheria?
Però che a Ronaldo facessero schifo le bibite zuccherate era, oltre che ovvio (pensate che quegli addominali lì si ottengano ingerendo roba calorica? Pensate faccia una vita di libagioni, uno col fisico di Ronaldo? Poi cosa: credete a Babbo Natale?), anche già ufficiale.
L’ultimo scandalo ronaldiano, a dicembre, fu perché aveva detto che guai se il figlio decenne beveva bibite o mangiava pizza.
Il commercio è l’anima del commercio, ma forse quello da licenziare è chi al marketing ha deciso di non mettergli davanti una Coca Zero, da cui magari il disciplinato portatore di fisico non zuccherato non avrebbe sentito di dover prendere le distanze, ma la Coca della nostra infanzia, quella piena di zucchero degli anni in cui c’era solo quella. Che ora, affiancata da mille versioni dietetiche, è rimasta prerogativa dei bambini ciccioni. Il commercio bisogna saperlo fare.