È passato un po’ più d’un secolo da quando un tizio austriaco disse che, nonostante trent’anni passati a cercarla, non aveva ancora trovato la risposta alla domanda «Cosa vogliono le donne?». Il tizio era l’inventore della più gran truffa del Novecento, la psicanalisi: si chiamava Sigmund Freud.
Sono passati ventott’anni da quando un tizio che aveva inventato una catena di negozi di biancheria in cui un uomo non dovesse vergognarsi d’entrare per comprare alla fidanzata roba da zoccola si buttò da un ponte a San Francisco. Se vi sembra d’aver già sentito la storia è perché viene usata come parabola educativa in The Social Network: mai vendere un’azienda in crescita, poi diventa enorme e a guadagnarci sono gli altri e tu t’ammazzi. Il tizio era l’inventore d’una discreta truffa di fine Novecento, Victoria’s Secret: si chiamava Roy Raymond.
Sono passati tre giorni da quando un carneade di amministratore delegato di Victoria’s Secret, Martin Waters, ha inventato il modo di andare sui giornali: fingere d’aver trovato la risposta che cercava Sigmund.
In fondo era facile, bastava che lo chiedesse a una qualunque di noi che da VS compravamo sempre qualcosa perché i sacchetti erano proprio carini, ma poi quel qualcosa restava perlopiù nei cassetti inutilizzato. Cosa vogliono le donne? Mutande comode.
Il mondo è cambiato e noi non siamo cambiati abbastanza in fretta, si è contrito annunciando modelle meno a forma di modelle, e già qui il concetto delle mutande comode si complica.
Il mondo non è cambiato: esiste ancora il desiderio, che è quella cosa che muoveva il mercato di Victoria’s Secret. Non la comodità, ma l’aspirazionalità. Voglio vedere una strafiga sfilare con un reggiseno che io non comprerò mai (Victoria’s Secret ha sempre e solo fatto reggiseni per donne senza tette), ma che a lei sta benissimo.
E che le mie amiche piatte vorranno, giacché tutte le donne così fortunate da essere piatte giurano di voler essere così sfortunate da avere tette ingombranti, tette accaldanti, tette che non ti stanno nelle giacche, tette che d’estate il sottotetta ti suda così tanto che devi infilarci una bottiglia di birra per rinfrescarlo.
Coi reggiseni col ferretto, Victoria’s Secret dava loro solo i vantaggi: l’illusione delle tette. Mica era poco, ma Waters dice che il mondo è cambiato, e Waters è un uomo d’onore. «Bisognava che la smettessimo d’occuparci di ciò che vogliono gli uomini, e pensassimo a cosa vogliono le donne», e qui iniziamo a capire meglio quale sia la complicazione del concetto di mutande comode: il desiderio esiste.
Non compri le mutande di pizzo per te stessa. Dici alle amiche che le compri per te stessa, dici al dottor Freud in sessantaquattresimo dal quale vai tutte le settimane che vuoi piacere a te stessa, giuri sui social che ti fai bella per te stessa, annuisci quando le femministe ti dicono che nessuno ha il permesso di guardarti le tette se le esponi, ma nel sottoscala della ragione lo sai, che la seduzione ha bisogno d’un interlocutore (salvo casi patologici).
Certo che la mutanda alta è più comoda del perizoma, ma non era per quello che venivamo da Victoria’s Secret (alla fine degli anni Novanta, il più noto posto dove andare a depilarsela in modi estremi, a Manhattan, era di fianco a un Victoria’s Secret: senza cambiare strada, potevi organizzarti per intero la serata – e poi dire alle amiche che ti facevi strappare peli con cera bollente da zone sensibili per piacere a te stessa).
È perché gli affari andavano male, che si riposizionano? O perché oggi un’azienda che non si schieri su ciò cui sembra sensibile il pubblico si agita moltissimo, assume consulenti per la brand awareness, e alla fine capisce che bisogna cambiare tutto per finire sui giornali senza aver cambiato niente?
Vi rendete conto, ci dice il New York Times: da Victoria’s Secret non si festeggiava la festa della mamma, perché non è sexy. Ci vuole il buonsenso dell’ex per dare la risposta definitiva. L’ex capa di Victoria’s Secret fa sommessamente presente che però, prima della pandemia, questa fissazione per il sexy valeva un giro d’affari di sette miliardi di dollari.
Ieri in cima alle tendenze italiane di Twitter c’era Algida. No, non hanno smesso di fare il cornetto. Hanno mandato in onda uno spot in cui una ragazza nera bacia all’angolo della bocca un ragazzo bianco. Una carneade con seimila follower ha twittato che lei aveva «chiuso con Algida», indignata dalla «rappresentanza cioccolato» e da due lesbiche (che non so come abbia riconosciuto: una delle due persone è di spalle, potrebbe essere di uno qualunque dei cento e più generi sessuali attualmente immaginati).
Il Twitter dei buoni era indignato: come osa, questa reazionaria. Vorrei rassicurarli: non smetterà di mangiare il cornetto, se il bar dello stabilimento in cui villeggia ha i gelati Algida. I consumi avvengono per molte ragioni – comodità, gusto, abitudine – ma non per posizionamento morale. In questo destra e sinistra sono uguali: che dicano che non mangeranno più Algida o Barilla, comunque mentono.
D’altra parte, nessuna di noi ha mai smesso di comprare mutande scomode perché erano un prodotto non abbastanza femminista. Abbiamo smesso, con le mutande e le cerette scomode, sempre in coincidenza della fine d’una relazione, e ricominciato con la relazione successiva.
Ma nulla è più anima del commercio del pentimento o della rissa: nessuno avrebbe notato l’assai anonimo spot di Algida, se la carneade non si fosse sacrificata nel ruolo della cattiva. Nessuno si ricorderebbe di Victoria’s Secret se non si fossero rumorosamente pentiti d’aver usato, per le loro sfilate, modelle a forma di modelle. Cosa vogliano le donne resta un mistero, che cosa vogliano le multinazionali pare abbastanza chiaro.