Con l’avvento della Giornata mondiale dell’Ambiente i giornali tornano a prendere di mira chi, nel paradigma binario del dibattito culturale, viene bollato come “cattivo”. E lì vi resta a vita. In questi giorni si sono letti nuovi attacchi ai produttori di olio di palma, additati come principali colpevoli del processo di deforestazione. C’è un vizio di merito e di sostanza in questo approccio del tagliare le gambe all’avversario.
Per prima cosa, non si parla mai di tutti gli sforzi che i governi, il settore privato e la società civile stanno ormai da diversi anni facendo per rendere la filiera sempre più sostenibile. Pensiamo ad esempio alle moratorie sulle foreste e sulle nuove concessioni. L’iniziativa dovrebbe essere riconosciuta come punto di svolta – se non fattuale, per lo meno giuridico – di quei governi (indonesiano per primo) che hanno posto uno stop alle operazioni di sfruttamento intensivo dei propri territori a uso agricolo.
È vero: la deforestazione in passato c’è stata, ma non è tutta attribuibile all’espansione delle piantagioni di palma da olio, e soprattutto ora è in fase di contenimento. Come affermato dalla Fao, a livello globale, infatti, il peso dell’olio di palma sul totale della deforestazione tropicale è stato stimato pari al 5 per cento.
Nel 2011, infatti, Jakarta impose una prima moratoria che vietava la distruzione delle foreste vergini: era l’anno immediatamente successivo a una recrudescenza del Niño (quella ancora dopo, e ben più pesante, è del 2015), che aveva portato a un aumento delle temperature, soprattutto nella fascia equatoriale, e quindi a una maggiore esposizione delle foreste agli incendi. Ed è proprio partendo dall’esperienza di quegli anni, fatti di caldo infernale e di ecosistema (non solo le foreste) devastato dal fuoco, che l’Indonesia decide di agire. Se si osservano le rilevazioni di Global Forest Watch, una ong certo non vicina alle posizioni dei produttori di olio di palma, balza agli occhi l’andamento pre e post moratoria.
I dati elaborati dal World Resources Institute mostrano, inoltre, che a livello globale l’impatto sulle foreste dovuto all’espansione delle piantagioni di palma da olio è notevolmente diminuito già a partire dal 2012. Su tutto questo, però, i media sono reticenti. Vizio di merito, appunto. Non si va lontano quando a scrivere si è mossi dal dogma dicotomico per cui i buoni e belli stanno da un lato e i brutti e cattivi dall’altro.
A questo si aggiunge l’incapacità di osservare le cose nel loro insieme. Quello dell’olio di palma è certamente uno dei mercati con le più accentuate caratteristiche della globalizzazione. Utilizzo trasversale e trans-settoriale del prodotto e concentrazioni polarizzate tra domanda e offerta. Industry-update.com, in un longform molto articolato, dà un quadro esaustivo di cosa rappresenti l’olio di palma per l’economia mondiale oggi.
Al netto del fatto che siamo tutti d’accordo che la deforestazione ha lasciato delle cicatrici sulla terra che la natura potrà riassorbire solo in tempi lunghi, e che quindi ogni misura di contenimento a questo processo devastante vada quanto meno ponderata e poi incentivata, il vacuum sta nella scarsità di soluzioni davvero sostenibili. Ma sostenibili in termini pragmatici. Ovvero in grado di fornire una risposta accettabile (sostenibile) per la natura, per l’uomo e per la stabilità economica del comparto.
Attaccare ciò che è ritenuto responsabile dei grandi mali del mondo – olio di palma, plastica, carne di allevamento – è un gioco facile. Ma non risolve il problema. Ostinarsi a non osservare come dato di fatto le buone pratiche elaborate e applicate nei centri produttivi messi alla gogna – per esempio, l’introduzione di certificazioni di filiera per l’olio di palma – significa illudersi che le vittime della globalizzazione possano essere salvate dalla mano invisibile di una giustizia superiore, ma poco super partes.
È arrivato il momento di capire che la sostenibilità non è un valore e basta, ma una pratica che richiede uno sforzo costante di ricerca e un dispiegamento ingente di risorse. Tuttavia se questo impegno resterà di esclusiva delle major di settore, la sostenibilità continuerà a essere una pratica di vita da benestanti. Attualmente, soltanto un quinto del mercato dell’olio di palma dispone della certificazione di sostenibilità. Ad ammetterlo è la Roundtable on Sustainable Palm Oil, che sottolinea come il dato resti apaticamente costante dal 2014.
C’è chi potrebbe puntare il dito contro i pesci grandi, che così si assicurano il dominio dei mari. Ma le multinazionali non hanno alcun interesse a veder soffocare i piccoli produttori. Da una pecora si ricava la lana. Se si ammazza la pecora, addio lana, addio pecora. E quindi addio profitto. Semmai una multinazionale può puntare sulla crescita dei soggetti più piccoli per poi acquisirli e inglobarli.
Anche in questo il mercato dell’olio di palma è squisitamente globalizzato. Grandi produttori e facoltosi acquirenti da una parte. Piccoli produttori, con pochi mezzi di crescita, e masse di consumatori dall’altra. Il gap da colmare è fatto di politiche attive per la promozione di buone pratiche imprenditoriali anche su scala ridotta, una normativa globale accettata da un numero sempre crescente di governi, che incentivi le forze produttive non sostenibili a trasformarsi in tali, un riequilibrio al rialzo dei costi di produzione. È una provocazione, certo. Soprattutto in un momento di materie prime alle stelle.
Ma se è vero che l’olio di palma è versatile e costa poco, soprattutto per gli standard occidentali, allora proprio in linea con questi standard è plausibile immaginarne un contenuto aumento dei prezzi, che remuneri anche il costo della sostenibilità. L’alternativa è fare come lo Sri Lanka, che ha messo a bando le importazioni e raderà al suolo le piantagioni. È lecito chiedersi come reagiranno i piccoli coltivatori e le loro famiglie, e la loro forza lavoro.
* Giuseppe Allocca, presidente Unione Italiana Olio Di Palma Sostenibile