Quando un gruppo di giovani cittadini olandesi, dell’organizzazione ambientalista Fondazione Urgenda, fece causa al proprio governo per inazione sul cambiamento climatico, quasi nessuno si aspettava una vittoria.
La causa, intentata nel 2013, sosteneva che il governo olandese, non raggiungendo l’obiettivo minimo di riduzione delle emissioni di anidride carbonica stabilito per scongiurare il peggioramento del riscaldamento globale, stava mettendo in pericolo i diritti umani dei suoi cittadini.
La sentenza iniziale del 2015, confermata poi dalla Corte Suprema in appello nel 2019, ordinava al governo di ridurre entro il 2020 le emissioni di carbonio del 25% rispetto ai livelli del 1990. Secondo la Corte, questo obiettivo era effettivamente necessario per proteggere i diritti umani sanciti dall’Unione europea e dalla legislazione nazionale.
Fu una decisione che passò alla storia: il primo caso di vittoria dei cittadini contro un governo in difesa dell’ambiente sulla base dei diritti umani.
Dopo la storica sentenza nei Paesi Bassi, molti giovani di vari Stati tentarono lo stesso approccio giudiziario.
Un altro successo rivoluzionario fu ad esempio quello di un gruppo di 25 ragazzi colombiani che nel 2019 hanno vinto una causa contro il loro governo, accusato di non aver protetto la foresta pluviale amazzonica dalla deforestazione.
Secondo le statistiche questa era anzi aumentata del 44% tra il 2015 e il 2016. La Corte non solo aveva deliberato a favore dei querelanti, ma aveva anche sottolineato che il governo era stato particolarmente inefficiente su questo fronte, affermando addirittura che per via della deforestazione il Paese avrebbe affrontato “danni gravi e imminenti”, e che a “subire i peggiori effetti” sarebbero state le generazioni future.
Dall’altra parte del mondo, in Pakistan, una bambina di 7 anni, Rabab Ali, tramite suo padre, l’avvocato ambientalista Qazi Ali Athar, e a nome del popolo pakistano, intentò una causa per il cambiamento climatico contro la federazione e il governo del Sindh.
La petizione, presentata nel 2016, affermava che attraverso lo sfruttamento e la promozione continua dei combustibili fossili, in particolare del carbone sporco, il governo aveva violato la Public Trust Doctrine e i diritti costituzionali fondamentali della generazione più giovane alla vita, alla libertà, alla proprietà, alla dignità umana, all’informazione e all’uguale tutela della legge.
Queste tre vittorie in tribunale in tre continenti diversi, sono diventate la base di un movimento legale promosso da giovani e giovanissimi per costringere i governi a farsi avanti e salvare il pianeta prima che sia troppo tardi. Questo trend globale ha un nome: climate justice, cioè giustizia climatica.
Il concetto di giustizia climatica viene utilizzato per indicare le conseguenze che il surriscaldamento globale ha sui diritti umani, sottolineando il fatto che quando si parla di climate change non si parla solamente di natura e ambiente ma anche di etica e politica. Con questo termine si intende, quindi, l’obbligo morale di creare un mondo più giusto ed equo a partire dalla tutela dei diritti umani, e in particolare di coloro che subiscono maggiormente gli effetti del cambiamento climatico pur non essendone i diretti responsabili.
I millennials e la Gen Z si sono fatti portavoce del movimento per la giustizia climatica, sollevando rivendicazioni costituzionali per ottenere il riconoscimento del diritto fondamentale a vivere in un ambiente sano, e chiedendo ai governi di tutto il mondo di ammettere le proprie responsabilità rispetto a questo problema. L’obiettivo è quello di far luce sui peccati ambientali e promuovere politiche e sistemi di produzione adeguati e sostenibili.
Se 20 anni fa le cause legali sul clima erano appena una decina in totale, i numeri di oggi sono decisamente diversi.
Secondo uno studio della London School of Economics and Political Science pubblicato nel 2019 cause di giustizia climatica sono state intentate in almeno 28 Paesi in tutto il mondo.
L’analisi dei casi registrati dal 1990 mostra che questo genere di denunce era inizialmente prevalente negli Stati Uniti, ma pian piano ha fatto registrare un’espansione geografia.
Dopo la vittoria della Fondazione Urgenda in Olanda, sono infatti aumentati i casi in Europa, così come nelle Americhe, in Asia e nella regione del Pacifico. Inoltre, un recentissimo report dell’United Nations Environment Programme ha rilevato che il numero di cause legali in materia di clima presentate nelle Corti di tutto il mondo è quasi raddoppiato tra il 2017 e il 2020. Ad oggi si contano più di 1700 contenziosi.
Tra le più recenti, c’è quella intentata da Adetola Stephanie Onamade, Marina Tricks e Jerry Amokwandoh; tre studenti britannici che la scorsa settimana hanno chiesto una revisione giudiziaria delle azioni del governo per ridurre le emissioni nazionali di carbonio.
Sebbene il Regno Unito abbia dichiarato l’emergenza climatica e sancito un obiettivo net-zero emissions entro il 2050, i ragazzi accusano lo Stato di aver ignorato i loro diritti alla vita, alla famiglia e alla non discriminazione, sanciti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Famosa anche la vicenda di sei giovani attivisti portoghesi, di età compresa tra 8 e 20 anni, che lo scorso settembre hanno presentato il primo caso di denuncia climatica presso la Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo.
Hanno chiesto a 33 Paesi di effettuare tagli alle emissioni di Co2 con l’obiettivo salvaguardare il benessere fisico e mentale della loro generazione e di quelle future. L’azione legale, finanziata tramite crowdfunding, ha messo sotto accusa gli Stati sia per le emissioni all’interno dei loro confini sia per il loro impatto climatico in altre parti del mondo.
Una delle querelanti, Sofia Oliveira, 15 anni, chiede all’Unione una riduzione delle emissioni di almeno il 65% entro il 2030 e l’accordo di una ripresa sostenibile post Covid-19, da effettuarsi tramite l’investimento in energie rinnovabili e tecnologie pulite.
Ma la novità maggiore che hanno introdotto i giovani attivisti portoghesi è la possibilità di far causa a più Paesi. L’azione legale si rivolge infatti ai 33 maggiori emettitori di gas serra tra i 47 Stati membri della Corte Europa dei diritti umani – tra questi ci sono tutti i paesi dell’Unione Europea, ma anche Gran Bretagna, Svizzera, Norvegia, Russia, Turchia e Ucraina.
Si tratta di un caso unico: è la prima volta che Strasburgo si trova ad affrontare una minaccia partita dallo stesso sistema di regole lì istituito. Non va infatti dimenticato che è proprio a Strasburgo che si stabiliscono gli standard che poi gli altri tribunali dovranno osservare.
Gerry Liston, legale del gruppo Global Legal Action Network che segue la vicenda, ha commentato: «Questo caso è unico. Si tratta del maggior numero di Paesi mai portato alla Corte Europea. Se vinciamo, avrà un effetto molto significativo in tutta Europa».
Dai Fridays For Future, alla giustizia climatica, l’attivismo ambientale sta assumendo forme sempre più sofisticate.
I contenziosi riguardo al climate change continuano ad espandersi in tutte le giurisdizioni, e sono sempre più visti come uno strumento per influenzare la politica e i comportamenti degli Stati.
David Boyd, professore di diritto ambientale presso l’Università della British Columbia e relatore speciale delle Nazioni Unite, ha spiegato: «Nessun altro diritto socio-economico si è diffuso in modo così capillare nel mondo. È una risposta diretta al fatto che ci stiamo finalmente rendendo conto delle effettive dimensioni di questa crisi globale».
E anche se non sono state tutte vittorie, il continuo diffondersi della climate justice e l’aumento esponenziale delle cause legali contro i governi promosse da giovani e basate sul diritto costituzionale a un ambiente sano e un degno futuro, rivelano un sentimento crescente circa il diritto climatico che presto, grazie anche a questi ragazzi, potremmo vederci riconosciuto.