Da tempo Enrico Letta ripete che il Partito democratico deve smettere di essere «il partito della Ztl», come ha fatto quattro giorni fa a Taranto e anche due giorni fa a Tor Bella Monaca, a quanto riportano le cronache, davanti agli iscritti della locale sezione del Pd. Dettaglio, quest’ultimo, che dava a tutto il contesto qualcosa di particolarmente straniante, suggerendo l’immagine di un segretario che arriva attorniato da cronisti, presumibilmente venuti con lui dal centro della città, apposta per dire ai militanti del suo partito lì residenti – in un quartiere distante dalla Ztl una quindicina di chilometri – che bisogna smettere di essere il partito della Ztl. Buffo, no?
So che non bisognerebbe citare libri che non si sono letti, e che «Non pensare all’elefante», di George Lakoff, è considerato sin dal suo primo apparire, a metà degli anni 2000, come un testo fondamentale e imprescindibile per chi voglia capire qualcosa di comunicazione politica (che è probabilmente il principale motivo per cui non l’ho mai letto). Ma forse non c’è bisogno di essere particolarmente versati nello studio del framing, o di qualunque altra cosa parlasse Lakoff, per notare come nessun partito di destra passi le giornate a dichiarare che non devono più essere il partito degli evasori, o della xenofobia, o dell’egoismo, mentre a sinistra, se ci fate caso, non si fa praticamente altro da un sacco di tempo (da ben prima dell’arrivo di Letta).
Dunque è difficile resistere all’impressione che un ritornello come quello del «partito della Ztl», ripetuto ossessivamente da politici, giornalisti e intellettuali di sinistra almeno dal 2018, sia il classico genere di previsione che si autoavvera: a forza di sentirlo ripetere, i militanti della sezione di Tor Bella Monaca – che pure esistono, evidentemente! – cominceranno a pensare di essere loro a essersi sbagliati.
Intendiamoci, qui non si tratta di mettere in questione la legittimità delle critiche e neanche l’utilità dell’autocritica. Del resto, contenendo questo stesso articolo una critica, sarebbe decisamente contraddittorio. Ma c’è una differenza, come il dibattito sulla legge Zan dovrebbe averci insegnato, tra la critica relativa a una scelta, a un comportamento, a un atto, e l’espressione di un disprezzo rivolto al soggetto in quanto tale, alla sua natura, alla sua identità: non per quello che ha fatto o detto, insomma, ma per quello che è (o si vuol far credere che sia).
L’aspetto curioso è che a sinistra questo genere di discorsi d’odio, per dir così, nascono dall’interno, o sono perlomeno rapidamente internalizzati. Non c’è in pratica deformante caricatura agitata contro di loro che gli stessi dirigenti del Pd non siano pronti a far propria e a rilanciare, magari nell’illusione di poterla utilizzare contro qualche avversario di corrente o magari contro il rivale più prossimo nella corsa a questa o quella postazione. Un continuo autodafé che certo non aiuta a conquistare nuovi consensi, alimentando in compenso una sorta di complesso d’inferiorità – per nulla incompatibile con atteggiamenti snobistici o arroganti, com’è noto – fino alle soglie dell’autentico odio di sé.
D’altronde, si sa, niente unisce le persone più di un comune nemico, di un’idiosincrasia condivisa, di un odio compartecipato. Che sia questo, al fondo, il vero terreno d’intesa con i grillini?