Il mondo è pieno di validi argomenti per una sinistra che voglia riaffermare alcuni principi di equità nella distribuzione delle risorse e riposizionarsi su una linea più radicale in economia, per un fisco maggiormente progressivo, uno stato sociale più forte e un maggiore interventismo pubblico. Per non farla lunga, come segnale di svolta nel dibattito pubblico globale attorno a questi temi, basta l’esempio di Joe Biden e dei democratici negli Stati Uniti. Un esempio, comunque se ne vogliano intendere la genesi e il valore, particolarmente significativo proprio perché proveniente da loro, che sono stati per decenni il punto di riferimento delle correnti liberal, dei sostenitori della terza via, della sinistra liberale e liberista a tutte le latitudini.
Siccome il mondo è bello perché è vario, non mancherebbero nemmeno gli argomenti per chi, nel campo progressista, volesse sostenere invece la posizione contraria, specialmente in Italia, ora che, grazie a Mario Draghi e all’emarginazione di alcuni irresponsabili e inconsistenti demagoghi, cominciamo a vedere la luce in fondo al tunnel (nonostante alcuni demagoghi residui, anche nelle regioni, sempre pronti a incasinare tutto un’altra volta).
È in questo contesto che si inseriscono dunque le recenti prese di posizione di Enrico Letta. Il problema è che, con questo contesto, quadrano pochissimo, e infatti hanno suscitato molte perplessità anche tra gli osservatori meglio disposti. Dai quali, intendiamoci, vanno depennati tutti quelli per cui la sinistra non dovrebbe mai occuparsi di tasse perché altrimenti vince la destra, o coloro secondo cui dovrebbe sposare direttamente le ricette economiche e fiscali degli avversari, perché metterle in discussione sarebbe come prendersela con le tabelline o la forza di gravità. Non per niente l’abolizione della tassa sulla prima casa è probabilmente la scelta meno contestata di Matteo Renzi, anche da chi ha ravvisato inequivocabili germi di fascismo persino nel modo in cui starnutisce (personalmente la considero invece una delle scelte più sbagliate).
Tutti si aspettavano che grazie all’arrivo di Letta il Partito democratico si sarebbe riposizionato su una linea di pieno sostegno a Draghi, dopo esserci arrivato obtorto collo e senza nascondere in nessun modo il proprio rammarico. E siccome un gruppo dirigente non può sostenere una linea politica, e tanto meno un governo, dicendo al tempo stesso che ne farebbe volentieri a meno, che avrebbe preferito mille volte continuare come prima e con quelli di prima, l’avvicendamento tra Nicola Zingaretti ed Enrico Letta, all’indomani del passaggio di campanella da Giuseppe Conte a Mario Draghi, era apparso come la più logica delle conseguenze.
Di qui lo stupore di tanti, nell’osservare da parte di Letta non solo una continuità, ma addirittura una radicalizzazione della linea precedente, che proprio non quadra, come si diceva, né con il contesto né con la personalità, la storia e le dichiarate intenzioni del nuovo segretario del Pd (in particolare se stiamo al suo discorso d’insediamento davanti all’assemblea nazionale).
La mia impressione è che, al netto di qualche ingenuità e magari di qualche errore di calcolo nel valutare gli effetti di questa o quella dichiarazione, non sia tutta e solo colpa sua. C’è qualcosa di più profondo, che riguarda la cultura diffusa e i meccanismi di funzionamento del Partito democratico. Qualcosa che risulta particolarmente evidente da un tweet apparso ieri, con lo slogan «l’1 per cento più ricco restituisca al 99 per cento dei giovani», con la parola-chiave «restituisca» sottolineata in rosso, sopra la foto di un Letta a braccia conserte e sguardo impavido, accanto al capogruppo del Pd al Parlamento europeo, Brando Benifei (che dinanzi alle polemiche si è assunto la paternità dello slogan, dicendo di averlo scritto lui, senza scaricarne la responsabilità su social media manager, hacker o altri capri espiatori di passaggio: comportamento così raro da meritare comunque una nota di apprezzamento).
L’infelice scelta lessicale ha suscitato le reazioni che è facile immaginare. Sui social network, inevitabilmente, in molti hanno ricordato l’infausto manifesto dei tempi dell’Unione, ironizzando sulla scarsa evoluzione della propaganda di sinistra da «Anche i ricchi piangano» a «Anche i ricchi restituiscano». Benifei ha replicato citando Tony Blair e i tanti che nel discorso pubblico angloamericano utilizzano l’espressione «restituire alla società» qualcosa di quello che si è avuto. E tuttavia, nel «restituiscano» del suo tweet, l’eco più forte che subito si percepisce non è certo Blair, e sinceramente nemmeno Lenin. È semmai l’eco del «restitution day» grillino.
Non c’è nulla di scandaloso nel discutere di tasse di successione (o anche di patrimoniale, eventualmente). A lasciare perplessi è il modo in cui lo si è fatto finora, con un’estemporaneità al limite della provocazione, testimoniata dallo sconcerto di Draghi, che ha appreso l’esistenza della proposta direttamente dalla voce di un giornalista in conferenza stampa, anziché da quella del segretario del Pd, che dovrebbe essere il suo principale sostenitore. Il che non depone a favore della concreta volontà di farne qualcosa di più di un argomento da tweet per i successivi tre o quattro giorni.
Estemporaneità, tatticismo, attenzione agli aspetti simbolici e di comunicazione più che agli effetti reali: queste caratteristiche, che non riguardano soltanto le mosse in materia fiscale, disegnano il profilo di un partito in cui, in modo solo apparentemente paradossale, la ricerca di un’identità e di un messaggio più radicali finisce per alimentare, invece di smentire, la caricatura del «partito della Ztl». Oltre a ricordare l’immortale Veltroni guzzantiano di «un fisco per l’estate».
Dai tempi dei girotondi tra quartiere Prati e centro storico, la sinistra dovrebbe avere imparato che c’è una forma di snobismo anche in certi atteggiamenti apparentemente intransigenti, soprattutto quando si dimostrano più una posa che una posizione politica.