I Pasdaran hanno portato a termine un colpo di Stato manipolando le elezioni e hanno conquistato il pieno e incontrastato controllo dell’Iran. È questo il significato politico dell’elezione a presidente della Repubblica iraniana di Ebrahim Raisi, avvenuta venerdì non per scelta popolare (ha votato circa il 40 per cento degli elettori) ma in seguito a plateali colpi di mano istituzionali che ne hanno imposto la scelta.
Raisi è un candidato simbolo della strategia dei Pasdaran. Non è un politico, è un magistrato, ha un ruolo religioso di secondo piano (non è ayatollah, è solo hojateslam), ma ha una caratteristica fondamentale: ha firmato come capo “comitato della morte” trentamila condanne a morte nei tribunali islamici. Dunque è il simbolo vivente della società iraniana voluta dai Pasdaran nella quale il minimo dissenso, la minima manifestazione di protesta, viene punita con la pena capitale. In questo modo è maturata una militarizzazione definitiva di una società nella quale i Pasdaran si ergono non solo come potenza militare, ma anche (secondo il modello delle Ss nella società nazista) come principale potenza economica. I Pasdaran attraverso la loro holding controllano infatti la produzione militare e missilistica, il settore nucleare, le telecomunicazioni, l’apparato infrastrutturale (aeroporti, imprese di costruzioni, ecc.) e parte dell’approvvigionamento alimentare della popolazione. I Pasdaran in Iran, insomma, costituiscono la spina dorsale anche produttiva del paese.
Con l’elezione di Raisi termina quella alternanza di dura repressione e blande aperture “riformiste” che ha caratterizzato l’Iran post Khomeini all’insegna non certo di una democrazia, ma di una flessibilità notevole nell’ esercizio del potere dello Stato. Dal 1988 in poi, dalla morte del Grande Ayatollah, il regime iraniano ha sempre alternato, con decisioni centralizzate, un presidente oltranzista con un presidente “riformista” (a Rafsanjani è succeduto Khatami, a questi è succeduto Ahamadinejad, a questi è succeduto Rohani). Beninteso, i “riformisti” non sono mai stati tali, ma hanno rappresentato quantomeno le istanze di cambiamento di una parte consistente dell’elettorato iraniano.
Con Raisi, tutto il potere è omogeneamente gestito dagli oltranzisti: la presidenza della repubblica e quindi il governo, il Consiglio dei Guardiani, il Parlamento (Majlis), con la prospettiva cupa della sua nomina a Guida Suprema nel momento in cui Ali Khamenei si ritiri (è anziano e malato) o muoia. Questo, a meno che la successione a Guida Suprema non passi al figlio Mojtaba Khamenei, con la instaurazione di una dinastia famigliare.
Definiamo qui il blocco di potere vincente egemonizzato dai Pasdaran “oltranzista” e non “conservatore” (come stranamente fanno i media) perché la sua caratteristica non è affatto la conservazione, ma una strategia di esportazione della rivoluzione iraniana, manu militari, che è iscritta nella loro biografia di giovani rivoluzionari nel 1979, poi di combattenti nella guerra con l’Iraq dal 1980 al 1988, poi come autori di uno straordinario programma di sviluppo missilistico e nucleare e infine come registi di una loro penetrazione e azione militare in Iraq, Siria, Libano, Yemen e Gaza.
Il generale dei Pasdaran Ghassem Suleimaini, ucciso dagli americani il 3 gennaio 2020, con la sua Brigata Santa (o forza Al Qods, Gerusalemme) forte di decine di migliaia di militari impegnati in quei paesi, è stato il protagonista geniale di questa proiezione della forza rivoluzionaria iraniana in tutto il Medio Oriente. Forza rivoluzionaria basata sulla presenza in Iraq, Siria e Libano di decine di migliaia di Pasdaran e militari delle Brigate Internazionali sciite e sull’impianto in Siria e Libano di decine di migliaia di missili puntati su Israele. Dunque, approfittando della sciagurata riabilitazione piena dell’Iran voluta da Barack Obama con gli accordi sul nucleare del 2015, i Pasdaran e Suleimaini hanno trasformato in quattro anni l’Iran da paese reietto dalla comunità internazionale in una solida potenza regionale capace di dettare la linea ai governi di Iraq, Siria e Libano, di gestire la guerra civile in Yemen e di trasformare Gaza in un bunker missilistico (come si è appena constatato).
Il tutto, sia ben chiaro, all’insegna dell’obiettivo strategico della rivoluzione khomeinista che è non solo la sua esportazione nei paesi limitrofi, ma anche e soprattutto la distruzione dello Stato di Israele, rivendicata peraltro anche dai “riformatori” alla Rohani.
Con la presidenza Raisi, le prospettive sono pessime per quella opposizione sociale e politica iraniana dal basso che ha terremotato per l’ultima volta il paese nel 2019-20, subendo 1.500 morti nelle piazze e che subisce le disastrose conseguenze economiche della sanzioni USA, che si intrecciano con i danni procurati dal COVID e con l’inefficienza e la corruzione del regime.
Incerte le prospettive delle trattative per ripristinare l’accordo sul nucleare denunciato da Donald Trump nel 2018 e che ora Joe Biden punta a rivitalizzare. Da una parte infatti l’elezione di Raisi segna la conquista totale delle leve di comando di quella componente oltranzista che ha sempre fortemente criticato il fatto stesso che si trattasse con gli Stati Uniti.
Dall’altra parte però le sanzioni economiche imposte all’Iran si sommano alla disastrosa inefficienza dell’economia iraniana (persino la benzina raffinata deve essere importata perché le raffinerie mai ristrutturate non riescono a trattare il greggio iraniano) e non bastano a alleviare la crisi economica gli eccellenti rapporti economici stretti con la Cina (che assorbe petrolio iraniano e fornisce beni di consumo e strutturali). Dunque, l’Iran è costretto a tentare di fare ritirare le sanzioni.
Si vedrà comunque rapidamente se l’irrigidimemento del regime imposto con la scelta di Raisi corrisponderà o meno a un oltranzismo anche nelle relazioni con gli Stati Uniti. Certo è che i Pasdaran non accederanno mai alla troppo timida richiesta dell’Amministrazione Biden di mettere in discussione accanto al programma nucleare anche il programma missilistico (grazie alla collaborazione con la Corea del Nord, l’Iran possiede un poderoso arsenale missilistico, anche per testate nucleari con gettata sino a 2.500 chilometri) così come a ritirarsi dalla loro determinante ingerenza politico-militare in Iraq, Siria, Libano, Gaza e Yemen.
Un cul de sac nel quale la buona volontà di Biden rischia di impantanarsi.