Avvertenza. In questa storia compare, come personaggio minore, la scrittrice Akwaeke Emezi. Akwaeke sceglie per sé pronomi neutri, ma pronomi neutri in italiano non esistono, così come non esistono aggettivi e participi neutri (l’italiano è una lingua romanza, le lingue romanze declinano i generi), e quindi l’autrice di questo articolo – che ha appena parlato di sé in terza persona, e poco ci manca che dica d’essere Napoleone – ha deciso arbitrariamente di declinarla al femminile. Le ragioni per le quali ho optato (ho smesso subito con la terza persona) per il femminile ve le dico più avanti, prima devo divagare.
Chimamanda Ngozi Adichie ha 43 anni, è nata in Nigeria e vive tra lì e gli Stati Uniti, è probabilmente la scrittrice nera più famosa al mondo (nessun titolo di discorso di Zadie Smith è mai diventato una maglietta di Dior o una scenografia di Beyoncé: al netto delle considerazioni sui rispettivi romanzi, Adichie è più famosa).
Come tutte le persone intelligenti, Chimamanda è interessata a quello che è il tema più rilevante dei nostri tempi, ovvero l’indicibilità. Che non consiste nella sintesi sciatta che fanno gli aspiranti rilevanti, coloro che sbuffano contro la-lagna-del-non-si-può-più-dire-niente: certo che si può dire tutto; altrettanto certo che un nugolo di rumorosissimi aspiranti rilevanti ha deciso quali siano le idee che è inaccettabile avere, le parole che è inaccettabile usare, e se decidi di dire lo stesso quel che ti pare renderà la tua vita pubblica un tale inferno che molti rinunciano: non avere rotture di coglioni è importante quanto esprimersi liberamente, forse di più.
È un’epoca che ha fatto fare un carpiato ai cliché: «Ho tanti amici gay» (o trans, o neri, o scegli-la-minoranza-del-giorno) era un tic lessicale di chi detestava la categoria di cui si diceva amico; adesso è diventata un’inconfutabile verità: ogni portatore sano d’indicibilità riceve in continuazione messaggi del tipo «non posso metterti un cuoricino in pubblico ma sono d’accordo su tutto». È più infelice l’indicibile lasciato solo o la maggioranza che costringe sé stessa a essere silenziosa? Non ho idea, a occhio ognuno sceglie per sé, in questo e negli altri settori.
La ragione meno importante per declinare Emezi al femminile (mica credevate mi fossi dimenticata la promessa) è che mi diverto moltissimo quando sui social mi dicono che sono transfobica, una parola utilizzata così a casaccio da stare ormai in zona «fascista» e «radical chic». Sono così stronza che, a ogni «come fate a pubblicare questa transfobica», me ne approfitto un po’ di più.
Non è che chi sceglie di dire l’indicibile sia eroico: perlopiù è privilegiato. È nella posizione di non doversi occupare di tenersi strette collaborazioni intellettuali infilando segni non presenti nell’alfabeto in parole che vuole neutralizzare. Ogni volta che leggo di privilegio bianco e maschile, e subito dopo aver pensato al barbone all’angolo che quindi sarebbe più privilegiato di Chimamanda o di Beyoncé, io penso che il vero privilegiato è Lucio Dalla, parlandone da vivo: il vero privilegiato è colui che, se il registro lessicale lo richiede, può dire «busone» invece di «gay» senza che lo accusino di omofobia interiorizzata. (Il privilegio di Dalla è stato aver vissuto in un’epoca meno beghina; il mio è non aver mai avuto committenti che si turbavano se usavo la parola giusta per la mia prosa, e non quella giusta per la morale del mese).
In questi anni, Chimamanda si è concessa il privilegio di dire varie indicibilità. Che JK Rowling (altra nota transfobica: siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte per paura delle parole sciatte) era perfettamente ragionevole. Che le trans sono trans. Che questa smania di fare i guardiani del lessico altrui è «cannibalismo della sinistra» (adesso è chiaro anche ai più ciechi rispetto ai pubblici e ai contesti, ma quando lo disse lei l’argomento a sinistra era ancora «come fate a dire che esiste l’indicibile, se Salvini e Trump si permettono qualunque turpitudine lessicale»).
La ragione più importante per cui declinerò Emezi al femminile non è che sia biologicamente donna; è che dirsi queer, cioè troppo anomala per rientrare in convenzioni borghesi quali i generi sessuali, è da parte sua una furbata. Quando il suo “Acquadolce” (lo pubblica Il Saggiatore) vince un premio per la letteratura al femminile, lei certo non lo rifiuta. Quando fa un video in cui prende parte allo scandale du jour, lo fa agitando i capelli lunghi, e gli orecchini pendenti, e le unghie da maliarda. Ho più io di Napoleone di quanto abbia lei di neutro.
L’obiezione «devi ascoltare la sua esperienza di persona trans» è respinta: sono pagata per fare valutazioni secondo la mia cultura, non secondo l’altrui percezione di sé. Detto con le parole di Chimamanda, la gente che ti chiede di ascoltare e imparare è sempre gente che col cazzo che legge mai un libro; detto con parole mie, «Dirò di te ciò che tu vuoi io dica di te» va bene per le addette alle p.r., non per chi fa il mestiere di scrivere.
E ora, dopo neanche cento righe di premesse, veniamo ai fatti d’attualità.
Ieri Chimamanda ha pubblicato sul proprio sito una propria versione d’un recente spettacolo di Ricky Gervais, ma un po’ meno noiosa. Gervais monologava sui disperati che lo insultano su Twitter, Chimamanda ha scritto di due delle disperate che hanno voluto la sua attenzione, i suoi consigli, il suo affetto, salvo poi darle dell’assassina sui social (nell’evolutissima conversazione collettiva sull’indicibile, la posizione degli aspiranti rilevanti è che, se osi dire che una che ha più tacchi di me e più capelli di me e più unghie di me non ti sembra esattamente neutra, stai incitando a uccidere i trans).
Il titolo del suo saggio è «È osceno». Riprende il finale, che ricopio qui: «Abbiamo, sui social, una generazione di giovani talmente terrorizzati d’avere l’opinione sbagliata da avere derubato sé stessi dell’opportunità di pensare e crescere e imparare. Ho parlato con persone giovani che mi hanno detto d’essere terrorizzate di twittare alcunché, leggono e rileggono i loro tweet per paura di venire attaccati dai loro sodali. La presunzione di buona fede è morta. Quel che importa non è la bontà ma l’apparenza della bontà. Non siamo più esseri umani. Siamo angeli che si spintonano per arrivare primi nella gara d’angelicità. Dio ci aiuti. È osceno».
Il saggio di Chimamanda – giacché ella è consapevole dei meccanismi che indurranno ogni giornale del mondo a riprenderla e a chiedersi «maledizione, perché non l’abbiamo pubblicato noi» – non è mica solo un trattato astratto di filosofia: è un «indovina chi» dei pettegolezzi. D’una delle due scrittrici citate – la Emezi, appunto – l’identità è stata subito svelata. Nelle mail pubblicate, Adichie aveva omesso i nomi, ma è Emezi stessa a svelarsi, con la tecnica di quelli che ti citofonano per dirti che non ti pensano proprio.
In un video e in tre prolisse storie scritte fitte fitte su Instagram, ella ripete di non aver letto il saggio di Adichie, di non volerlo commentare, di non volerle dare importanza, ci dice che ama sé stessa tantissimo e che di recente è pure stata sulla copertina di Time (di certo non perché assolveva contemporaneamente alla quota nera e alla quota queer, di certo per il valore della sua prosa).
Emezi ritiene Adichie transfobica, e tuttavia la usa per pubblicizzarsi in quarta di copertina e nelle sue note biografiche (è stata allieva d’un suo seminario), come da accuse di Adichie non smentite da Emezi.
Lo fa perché un conto è l’attivismo online e un conto è far la morale ai dettagli che potrebbero far vendere il tuo libro? O per le qualità che Adichie attribuisce ai ventenni (Emezi ne ha 34, l’altra allieva traditrice citata nel saggio non è stata identificata ma Adichie ne parla come d’una ragazza) d’oggidì, cioè gelida ambizione, convinzione di valere, egoismo travestito da autostima, convinzione che il mondo ti debba qualcosa, tendenza a essere virtuosi su Twitter ma non nella vita, e aspettative non realistiche di puritanesimo nei confronti degli altri?
Jon Ronson, che in “I giustizieri della rete” (Codice edizione) analizzò per primo questa deriva, quando la direttrice di Teen Vogue venne licenziata col pretesto di alcuni tweet scritti quando aveva diciassette anni, commentò: «Una generazione sta creando per sé stessa regole delle quali le risulta impossibile essere all’altezza». Se non puoi tollerare che una diciassettenne abbia scritto cose impresentabili, potrai mai accettare che un’intellettuale pensi cose che scombussolano la tua visione del mondo?
Naturalmente, com’è caratteristica comune a questi giovani invasati, Emezi è convinta d’essere una dei buoni a prescindere da ciò che dice e fa. Quando dice che la recente morte dei genitori di Adichie è una punizione per le sue posizioni transfobiche, non importa che sia una posizione che sta tra fessissimo pensiero magico e maligna meschinità: importa solo che lei si dica trans (parola che ormai include tutto, da una che per capriccio si cambia i pronomi a chi soffre d’una disforia invalidante), e in quanto tale ontologicamente vittima. (A un certo punto dei numerosi tweet in cui dà ad Adichie della transfobica, Emezi dice che in Africa Chimamanda sta dalla parte dei criminali di guerra: agli occhi dei contemporanei, non è un difetto altrettanto grave, e infatti Adichie non si scomoda a smentirlo).
Dell’altra tizia, quella rimasta per ora anonima, Adichie racconta una interessante storia alla Eva contro Eva, lei che lascia che diventi sua amica e poi capisce che la sta sfruttando per farsi pubblicità.
Ho ripensato a quante volte io, che non conto un cazzo, mi sono sentita chiedere (o, peggio, non chiedere esplicitamente ma buttar lì passivoaggressivamente come desiderio recondito che avrei dovuto essere così magnanima da esaudire senza che mi venisse chiesto) di favorire un futuro di scrittura professionale da gente non particolarmente talentuosa (il che non ha impedito loro di appagare le loro ambizioni: il livello dei giornali è quello che è).
Ho pensato che sì, poteva sembrare patetica, la grande scrittrice che se la prende con l’aspirante rilevante che l’ha delusa, come lo era sembrato Gervais a prendersela con dei carneadi che lo insultavano su Twitter, ma per due esempi che mettono in scena ce ne saranno duecentomila su cui tacciono.
Quanti aspiranti rilevanti tenteranno d’avvicinare una Chimamanda? Quanti la odieranno per non averne ricevuto abbastanza luce riflessa? E quanto può innervosirsi, il femminismo in vista, quello che quasi ce la farebbe a far passare l’idea che l’essere femmina attenga alle patologie della psiche, mica ai gameti, quanto può questa militanza isterica e beghina trovare insopportabile che la femminista più famosa, più pop, più letta dell’isterico e beghino secolo fragile sia una che osa pensarla, sulle femmine, diversamente dall’ortodossia corrente?