Tra una raccolta di firme a sostegno dei referendum garantisti «per una giustizia giusta», un elogio di Mario Draghi e un dibattito sull’opportunità di costruire in Italia un grande partito della destra di governo (e se nessuno lo ha ancora definito il «partito liberale di massa che l’Italia non ha mai avuto» è solo perché, con l’avanzare dell’età, anche i nostri commentatori perdono qualche colpo), Matteo Salvini ha rilanciato sui suoi canali social il video in cui alcuni poliziotti inseguono un uomo, a quanto pare, armato di coltello (uomo ovviamente di colore e classificabile come immigrato, altrimenti non sarebbe finito sui social di Salvini) e a un certo punto, per fermarlo, gli sparano a una gamba. Un video cui il leader della Lega ha aggiunto anche una musichetta a fare da colonna sonora, usando gli elogi alla polizia per rendere presentabile un messaggio che ha tutt’altro effetto, sulla platea (non lo espliciterò perché confido nell’intelligenza del lettore). Ricordando a ciascuno di noi che cosa abbiamo rischiato tra 2018 e 2019, quando l’autore di una simile propaganda era ministro dell’Interno, e messaggi del genere li lanciava dal Viminale, con indosso la divisa da poliziotto.
Non è una questione di coerenza, ovviamente, trattandosi dello stesso leader che ha preso un partito secessionista il cui slogan principale era «Prima il Nord» e lo ha trasformato in un partito nazionalista il cui slogan principale è «Prima gli italiani». Partito con cui è andato al governo in nome dell’uscita dall’euro nel 2018, si è autodefenestrato nel 2019 ed è rientrato in maggioranza nel 2021, in nome del rilancio della vocazione europeista e atlantista del Paese, dopo aver messo in soffitta la maglietta di Putin, accanto alle opere complete di Borghi&Bagnai.
Il guaio è che stiamo parlando di una delle principali forze politiche del Paese, che unendosi a Forza Italia può legittimamente aspirare a diventare il primo partito, e che insieme con Fratelli d’Italia, schierato su posizioni ancora più radicali e populiste, rappresenta oggi una buona metà dell’elettorato. Un peso che non appare minimamente controbilanciato da un Partito democratico esanime e confuso, abbracciato a un Movimento 5 stelle in piena crisi, e prontissimo a sfilarsi dall’abbraccio alla prima occasione, ricostituendo quella maggioranza parlamentare ultra-populista che già all’indomani delle elezioni del 2018 ha portato l’Italia a un passo dalle democrazie illiberali di Visegrád. Altro che atlantismo ed europeismo.
Al momento, la tregua imposta dal governo Draghi e la parentesi di razionalità che ha aperto in un sistema politico impazzito somigliano alla quiete prima della tempesta. Per questo è importante capire, guardando al caos politico-ideologico che caratterizza oggi il centrodestra, quale sarà il punto di caduta: se cioè la linea sarà dettata da un gioco al rialzo tra Lega e Fratelli d’Italia, come lascia pensare il ritorno di Salvini allo stile di qualche tempo fa, prima della conversione euro-atlantista, o se invece, ma è speranza assai flebile, proprio la concorrenza di Giorgia Meloni lo convincerà a fare lui, stavolta, la mossa del cavallo, ricostruendo il principale partito del centrodestra su una posizione classicamente liberal-conservatrice.
L’assurda autoemarginazione di un centrosinistra ancora impelagato tra le piccole minacce e i mille risentimenti dei nostalgici del contismo offre a Salvini, paradossalmente, l’occasione migliore per intestarsi in pieno, quando verrà il momento, l’eredità del governo Draghi. Se decidesse di chiudere il cerchio abbandonando le illusioni plebiscitarie (di cui comunque si avvantaggerebbe Meloni) in favore di un accordo su una legge elettorale proporzionale capace di garantire tutti, e prima di ogni altro l’inamovibile centralità del nuovo partito post-draghiano nato dall’unione lega-forzista, sarebbe un bene per lui e per l’Italia. Sarebbe, insomma, la scelta più giusta e anche la più lungimirante. Ed è difficile dire, trattandosi di Salvini, quale delle due caratteristiche la renda più improbabile.