Esiste in Italia una quota potenzialmente molto grande di cittadini che odia la politica, ne disprezza le forme, ne irride le manifestazioni, non ha dubbi sulla sua intrinseca immoralità. Al suo interno c’è una parte che di volta in volta sceglie un leader di riferimento abile a presentarsi come “diverso”, alternativo alla politica ufficiale, forte di una sua costruita coerenza e soprattutto, come si dice adesso, cazzuto.
Oggi questa figura è Giorgia Meloni. Lei rappresenta la nuova fase dell’antipolitica. La leader di Fratelli d’Italia sta infatti riempiendo il vuoto lasciato dal Movimento Cinque Stelle, una formazione ormai impazzita e indistinguibile dal punto di vista di quella connotazione ideale e culturale che comunque – lo ricordiamo tutti – nella sua prima fase ha avuto eccome. D’altronde, bisogna pure spiegarsi perché FdI cresca in tutti i sondaggi e anche perché il libro della sua leader sia addirittura primo nelle classifiche di saggistica. E, insomma, perché Giorgia Meloni sia indubbiamente il fenomeno nuovo di questa fase della politica italiana.
L’esclusiva dell’opposizione è stata una scelta fruttuosa, da questo punto di vista, e non ci voleva un genio per capire che l’unico soggetto in contrasto con il governo di unità nazionale sarebbe stato perfettamente in grado di attrarre tutti gli umori negativi che circolano in un Paese in grande difficoltà come il nostro. Ma questo non basta a spiegare il fatto che un partitino come FdI in poco tempo sia arrivato quasi al 20 per cento. E tutti dicono che, se si candidasse a sindaco di Roma, Meloni vincerebbe alla grande: e che, Roma è così di destra? No, ci deve essere dell’altro.
La forza di Giorgia sta in questo: è il volto (peraltro femminile) di un’antipolitica di tipo nuovo, se possiamo definirla così diremmo un’antipolitica travestita da politica. In questo lei è diversa dal grillismo che sbeffeggiava il sistema e dava l’idea di volerlo abbattere (il «vaffanculo» ne era il distillato propagandistico e la scatoletta di tonno da aprire uno slogan da sessantottino assalto al cielo), mentre Giorgia Meloni si propone come alternativa politica non solo a Mario Draghi – non c’è ironia in questa contrapposizione – ma, e siamo sempre lì, alla partitocrazia, al magna magna, a chi non è “normale” rispetto alla Tradizione: molto qualunquismo ma senza radicalità, e tuttavia con quel tocco di professionismo politico che viene dalla storia della destra italiana che bene o male è pur sempre un giacimento ben più solido di quello grillino e leghista.
Perché nulla potrà cancellare un dato di fatto, e cioè la discendenza diretta di Fratelli d’Italia dal Movimento sociale bypassando la svolta di Gianfranco Fini e, per questa via, la sua riconnessione al qualunquismo come ingrediente della cultura fascista. In salsa pop e non “alta” come un certo dannunzianesimo di ritorno desidererebbe. Pop, com’era il grillismo. D’altronde, ormai diversi anni fa uno dei più colti del “melonismo”, Alessandro Giuli, scrisse: «Potremmo contemplare in questo spettro chiamato destra anche qualche venatura millenaristico-settaria del Movimento Cinque stelle, un magnete per rivendicazioni del sottosuolo fra le quali strisciano pulsioni revulsive ed espettorazioni truculente che possono far rimpiangere l’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini»: la genealogia è questa.
Poco importa che l’autocandidatura a governare il Paese sia velleitaria, considerando l’inesistenza di un gruppo dirigente minimamente colto e preparato (a eccezione del solo Guido Crosetto che però pare un pesce fuor d’acqua rispetto a Ignazio La Russa e ai giovani esagitati tipo Giovanni Donzelli e Marco Lollobrigida e la figlia di Pino Rauti, Isabella, e agli altri che appaiono nei talk tv): se “scappati di casa” fu una evocativa e azzeccata espressione per identificare i grillini, essa si attaglia ancora meglio ai Fratelli, almeno sotto il profilo culturale e delle competenze specifiche. Una riprova, l’incredibile debolezza al livello del governo locale (a differenza della Lega): se a Roma deve aggrapparsi a un guru di una radio privata, è chiaro che da questo punto di vista il melonismo di governo è fantascienza pura.
La forza di Giorgia è Giorgia stessa, dunque. Ha un quarto dell’istrionismo di Beppe Grillo, ma sotto l’aspetto dell’abilità e della tecnica politica non ha molto da invidiargli. Lei peraltro sta intercettando anche l’altro corno della vecchia stagione “contiana”, cioè quel sottile strato di disillusione che percorre l’elettorato salviniano, anch’esso molto istintivamente anti-istituzionale e per una parte almeno intrinsecamente reazionario.
La somma del vuoto grillino e della stanchezza leghista fornisce il propellente buono per lei, una “che non gliela canta”, come dice il motto popolare, una “tosta” che si sa sintonizzare con lo spirito del tempo. «È una bolla che si sgonfierà», prevede Matteo Renzi che in materia ha una sua, diciamo, esperienza. Probabilmente ha ragione. Il problema è capire quando. Il substrato antipolitico e qualunquista contribuì a sostenere Silvio Berlusconi per vent’anni almeno. Del M5s si è detto, il fenomeno è durato una decina d’anni. Quanto reggerà Giorgia Meloni, nuova icona dell’antipolitica, ma travestita da politica? Certo il 2023 è maledettamente lontano, per una come lei.