Braveheart, bad feetIl mistero della Scozia così povera di campioni nonostante Celtic e Rangers

Stasera a Wembley i ragazzi di Steve Clark giocheranno contro gli odiati nemici inglesi, nella sfida storica per eccellenza del football. Da decenni però gli scozzesi non riescono a costruire una selezione valida, nonostante la tradizione e la cultura del Paese: il movimento calcistico nazionale sembra essersi fermato molto tempo fa

LaPresse

Quando si parla di tradizione, di cultura e di sfide storiche nel calcio, Inghilterra-Scozia è il primo riferimento. Anche secondo un criterio temporale: la prima partita ufficiale risale al 30 novembre 1872, a Glasgow. Non la prima tra le due squadre: è la prima sfida tra due rappresentative nazionali di sempre.

Stasera la Scozia ritrova gli Auld Enemy, i vecchi avversari, faccia a faccia sul campo. Ma nel 2021 l’equilibrio tra le potenze non potrebbe essere più sbilanciato.

L’Inghilterra è una delle Nazionali più in forma del continente, una delle candidate alla vittoria finale a Euro 2021, nel pieno di un percorso di crescita che li ha visti arrivare in semifinale ai Mondiali del 2018 e promette di aprire un ciclo con la nuova generazione d’oro di Phil Foden, Marcus Rashford, Jadon Sancho, Mason Mount.

La Scozia invece è tornata solo adesso a partecipare a un grande torneo internazionale dopo 23 anni: un periodo abbastanza lungo da far sparire la nazione dalla mappa del calcio, un Paese che ha interiorizzato la sconfitta, come se fosse un evento dovuto, scontato.

I numeri aiutano a mettere in prospettiva la sproporzione tra le due squadre: il valore della rosa convocata dal ct inglese Gareth Southgate è di 1,26 miliardi di euro, secondo Transfermarkt, quello della Scozia è 269 milioni. I 26 giocatori inglesi hanno collezionato complessivamente 364 presenze in Champions League, compresi i 7 in campo nell’ultima finale tra Chelsea e Manchester City; la Scozia arriva a 115 presenze combinate.

Dopo anni di sconfitte e delusioni sembra che il movimento calcistico scozzese si sia involuto, diventato sistematicamente debole nonostante cultura e tradizione.

Paradossalmente il calcio scozzese negli ultimi decenni ha prodotto meno anche rispetto alle altre nazioni del Regno Unito – oltre all’Inghilterra – e alla Repubblica d’Irlanda. Non ci sono grandi nomi come Ryan Giggs, Gareth Bale, Aaron Ramsey (Galles). Non ci sono partecipazioni degne di nota alle manifestazioni internazionali, come invece hanno fatto Eire e Irlanda del Nord.

Nella sua storia la Scozia ha presto parte a 8 Mondiali e 3 Europei nella sua storia, ma non è mai riuscita a superare la fase a gruppi. È paradossale perché in realtà il movimento calcistico nazionale, a differenza di quello gallese e delle due irlande, è presente nel panorama internazionale in altri modi.

È una grande fucina di allenatori – Sir Alex Ferguson su tutti, poi anche David Moyes, Kenny Dalglish, Brendan Rodgers – e vanta due club di spessore come Celtic e Rangers, che superano qualunque squadra irlandese o gallese.

Ma nonostante questo la Scozia non ha mai trovato materiale sufficiente per costruire una Nazionale forte, ma nemmeno vagamente apprezzabile. È un caso più unico che raro a livello europeo.

La squadra arrivata a giocare Euro 2020 è una delle meno forti del torneo, tecnicamente molto sotto la media, una di quelle meno quotate in assoluto. È singolare anche se letto in chiave storica: nelle tradizionali sfide di fine ‘800 con gli Auld Enemy, la Scozia era la squadra che proponeva un gioco tecnico, cerebrale, molto più simile al calcio moderno rispetto al gioco muscolare e fisico offerto dagli inglesi.

La Scozia è la squadre che può dire di aver rivoluzionato la preistoria del calcio. Poi però sembra essere rimasta ferma al palo – o forse addirittura regredita. Oggi la rosa a disposizione del ct Steve Clark ha davvero pochi giocatori di livello – Scott McTominay, Kieran Tierney e Andy Robertson sono gli elementi più importanti – e un’identità basata su atletismo, verticalità e aggressività nelle battaglie uomo contro uomo. Ma non c’è molto altro.

Negli ultimi dieci anni federazione e parlamento scozzese hanno provato a cambiare rotta, ridisegnando da zero i programmi del calcio giovanile nazionale. Ma sembra ancora troppo poco, o comunque troppo presto per vederne davvero i frutti: anche la qualificazione a questi Europei, conquistata nello spareggio contro la Serbia, è sembrata più casuale che frutto di una programmazione decennale.

È bastata però per rianimare i tifosi: tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80 la cosiddetta Tartan Army è sempre stata una protagonista nelle partite della Scozia. Il New York Times li ha definiti «un’attrazione turistica a sé stante, un’allegra orda itinerante che si distingueva in un periodo in cui i tifosi si identificavano soprattutto per la violenza e i danni provocati».

Un’intera generazione che non ha mai avuto l’opportunità di tifare per davvero, e una più anziana che vorrebbe tornare indietro di quarant‘anni, ritrovano quello spirito patriottico che si è smarrito sconfitta dopo sconfitta. Un sentimento amplificato dal momento storico: in tutta la nazione è forte la spinta indipendentista di chi vorrebbe separarsi da Londra.

È vero che la partita di stasera a Wembley sembra già scritta. Ma la Scozia non avrà occasione migliore per ritrovare la sua storica vocazione calcistica, con la spinta di 5 milioni e mezzo di tifosi. Contro gli avversari di sempre.

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