«Sarà davvero tutto finito quando potremo entrare all’Esselunga senza la mascherina». Milano, maggio 2021. La luce in fondo al tunnel è quella che illumina le corsie del supermercato più amato da chi vive a Milano e dintorni, quello dove «gli scaffali sono sempre assortiti» e «la qualità non si discute». Con le corsie traboccanti di prodotti ben allineati, il personale in uniforme blu e le luci al neon che ricordano quelle degli uffici, l’Esselunga è entrata nell’immaginario collettivo come il simbolo della produttività lombarda, quasi un luogo di culto dove i fan di Bernardo Caprotti da Albiate, provincia di Monza Brianza, si sentono a casa.
Se provate a parlate con qualche addicted quasi certamente vi dirà che lui non va «a fare la spesa», lui «va all’Esselunga», facendovi sentire la esse maiuscola mentre pronuncia il nome, per marcare la superiorità rispetto alla concorrenza. «Altrove, se cerchi qualcosa, al massimo quello che puoi ottenere dalla commessa è un “provi a vedere di là”. All’Esselunga invece…». «Quando faccio la spesa online trovo quasi sempre un omaggio, piccole cose ma fanno piacere. A Natale mi hanno regalato una bottiglia di spumante». La ricetta per trasformare i clienti in fan passa da piccole cortesie come queste, ma anche dalla capacità di raccontarsi bene e farsi raccontare attraverso il passaparola.
C’è chi ricorda di aver incrociato Caprotti in persona nel punto vendita di viale Papiniano. Perché il Dottore, com’era chiamato da dipendenti e collaboratori, i negozi li andava a ispezionare personalmente, di solito il sabato mattina, quando c’era più movimento. Si metteva il tesserino come un dipendente qualsiasi e si mimetizzava tra le corsie, lui che pur arrivando da una famiglia alto borghese aveva iniziato facendo la gavetta. Fresco di laurea in giurisprudenza, il padre, industriale del tessile, l’aveva mandato in Texas «a imparare i cotoni» e lui in America aveva visto i primi supermarket. Così quando nel 1957 Rockefeller ha l’idea di replicare il modello americano in Italia lui coglie l’opportunità al volo ed entra in società con una quota di minoranza.
Come nasce un mito
I primi punti vendita si chiamano Supermarkets Italiani ma le persone ricordano soprattutto quella “s” allungata disegnata da Max Huber così Caprotti, che nel frattempo ha acquisito l’intera proprietà, decide di cambiargli il nome in Esselunga. Intraprendenza e lungimiranza non gli mancano. In “Falce e carrello. Le mani sulla spesa degli italiani”, il volume che ripercorre la storica battaglia contro le Coop rosse, di sé dice: «Da mio padre e da mia nonna Bettina ho imparato il culto della libertà, dell’indipendenza e la passione per le visual arts, architettura, pittura, grafica e… l’ossobuco fatto con un’ombra di acciuga. Mia madre, francese, e mia nonna, alsaziana, mi trasmisero l’inclinazione per la musica e per Moliére, l’avversione per les Boches (così venivano chiamati i tedeschi fin dai tempi di Luigi XIV) e il culto dei soufflé. Se l’Esselunga è quello che è, forse lo si deve anche a questo».
Nel primo punto vendita inaugurato in viale Regina Giovanna a Milano, 400 metri quadrati senza neanche il parcheggio perché, secondo la concezione del tempo, le donne che vanno a fare la spesa non guidano, le sciure sono catapultate dal piccolo mondo antico della drogheria sotto casa allo store dove per la prima volta possono scegliere «fra 1.600 articoli inscatolati o avvolti nel cellophane. Mozzarelle napoletane, pinne di pescecane, nidi di rondine, zuppa di canguro» favoleggiano i giornali del tempo.
Qualcosa di inaudito avere tutto lì a portata di mano, poter prendere da sole la merce sugli scaffali. «Era una cosa talmente assurda che per definirla bisognava usare un’espressione americana: self service. In teoria, era un passo indietro: invece che essere servito, dovevi fare da te, senza che nessuno spiegasse niente, spingendo pure un carrello: ancora un po’ e ti facevano fare le pulizie. Non ti portavano la spesa a casa, non ti salutavano per nome, non sapevano i tuoi gusti. Quindi, sulla carta, una cavolata. Tuttavia i prezzi erano un po’ più bassi, gli scaffali pieni di prodotti, la luce ben studiata, la disposizione delle merci piuttosto spettacolare. Il carrello scivolava bene sul pavimento pulito, e per qualche ragione che non capivi, ma che doveva risalire a qualche bella pubblicità o addirittura a un film americano visto una domenica, tu ti sentivi piuttosto figo, nello spingerlo, e improvvisamente così autonomo nel fermarti qua e non là, nel prendere questo invece che quello, e forse addirittura libero (sì libero), un cittadino libero di scegliere quello che voleva, e capace di farlo. Fare la spesa diventava una specie di esercizio divertente esercizio di modernità, di intelligenza, di indipendenza e di democrazia» (Alessandro Baricco, Una certa idea di mondo, 2012, La Repubblica).
Nel giro di pochi anni arrivarono i maxistore, la prima gastronomia in-store, le raccolte punti, le pubblicità di Armando Testa con John Lemmon e Fata Zucchina, la prima spesa online in anticipo sui tempi, nel 2001. Fino agli endorsment pop trash della scena musicale, non solo milanese: “Amami come quella volta all’Esselunga quando in preda alla fame rubammo una baguette” cantava Brunori Sas molto prima che un ancora sconosciuto Oel ci ricordasse di provare le ormai mitologiche focaccine – “che sono buone, anzi oso dire superbuone, unte il giusto, che ti facciano sentire il gusto” – protagoniste di un brano e un video diventati virali.
Molta scelta non significa libertà
Al di là delle canzoni e dei meme che ci fanno sorridere, chiunque sia entrato in un grande supermercato, non per forza l’Esselunga, avrà notato che indipendentemente da cosa si debba comprare, alla fine ci si ritroverà alla cassa con qualcosa che non era sulla lista. Perché allunghiamo il percorso anche quando sappiamo esattamente cosa ci serve e presumibilmente conosciamo il percorso più lineare per ottenerlo?
Nel volume “The Art of Choosing”, Sheena Iyengar, docente di economia alla Columbia Business School, spiega che il motivo è da ricercare nell’illusione della scelta infinita. Un po’ quello che succede quando entriamo in un grande supermarket: le corsie lunghissime, zeppe di prodotti di ogni genere, stimolano la nostra curiosità e ci spingono a cercare ancora.
A livello chimico la ricerca produce dopamina che aumenta il nostro livello di eccitazione e produce piacere. Se poi c’è la promessa di una ricompensa immediata – le offerte imperdibili, gli “sconti da ultimi giorni” – l’effetto si amplifica. In esperimenti condotti con i topi, tra un percorso lineare verso il cibo e uno più complesso e ramificato gli animali preferiscono percorrere il percorso più lungo. Un po’ quello che avviene quando zigzaghiamo tra le corsie.
Secondo Iyengar siamo abituati a pensare che avere più di una scelta equivalga ad avere maggior controllo sulla realtà. In realtà il giusto mezzo si trova da qualche parte tra l’infinito e molto poco, e dipende dal contesto e dalla cultura.
Nei test condotti con scimmie e piccioni, gli animali imparano a premere dei pulsanti per procurarsi il cibo. Se viene data la possibilità di scegliere tra un solo pulsante e più pulsanti, sia le scimmie che i piccioni preferiscono più pulsanti. E noi umani facciamo più o meno la stessa cosa come dimostra il cosiddetto esperimento della marmellata condotto nei primi anni 2000 da Iyengar insieme con Mark Lepper: in un supermercato vennero allestiti due banchetti di degustazione, il primo con 24 diversi vasetti di marmellata, il secondo solo con 6. Sebbene la maggior parte delle persone si fermarono al primo, più fornito, solo il 3% decise di acquistare la marmellata mentre il secondo banchetto ottenne molto più successo in termini di vendite, circa il 30%. Questo perché il nostro cervello non è in grado di memorizzare più di 3 o 4 opzioni ma la nostra cultura di consumatori occidentali ci spinge a prediligere la varietà di scelta. Ecco perché la prima linea degli scaffali dev’essere sempre piena e possibilmente ricca di alternative.
Il mito americano si basa sull’idea che più le persone possono prendere decisioni più sono libere, e di conseguenza felici. Secondo lo psicologo Barry Schwartz, autore de “Il paradosso della scelta” e visiting professor all’Università di Berkeley in California, questo dogma ufficiale è falso. «Non c’è alcun dubbio che un po’ di scelta sia meglio che non averne affatto ma da questo non deriva che molta scelta sia meglio di un po’. C’è un valore critico, magico. Non so quale sia. Ma sono abbastanza sicuro che abbiamo superato da un pezzo il livello in cui le scelte migliorano la nostra vita».
Schwartz è convinto che l’aggiunta di opzioni nella vita delle persone non faccia che aumentare le aspettative che queste hanno rispetto all’eccellenza delle opzioni stesse. E questo produce meno soddisfazione, anche quando i risultati sono buoni. «Nel mio supermarket ci sono 175 condimenti, senza contare le 10 varietà di olio extravergine di oliva e i 12 aceti balsamici che potete comprare per farvi un numero enorme di condimenti nell’incresciosa circostanza che nessuno dei 175 già pronti sia di vostro gradimento. Ecco cos’è il supermarket». La domanda è lecita: chi ha davvero bisogno di 175 condimenti?
«Negli ultimi anni la depressione è esplosa nel mondo industrializzato – prosegue Schwartz. Credo che un fattore significativo, non l’unico ma importante, di questa ondata di depressione e di suicidi sia proprio che le persone hanno esperienze deludenti perché gli standard sono troppo alti».
Il motivo per cui si stava meglio quando si stava peggio secondo Schwartz è che quando si stava peggio era ancora possibile incontrare delle sorprese piacevoli. «Oggigiorno, nel mondo in cui viviamo – opulenti, industrializzati cittadini con l’aspettativa della perfezione – il massimo che possiamo sperare è che le cose siano all’altezza delle aspettative. Non avrete mai sorprese piacevoli perché le vostre aspettative, le mie aspettative, si sono ingigantite. Il segreto della felicità è avere basse aspettative».
Una lezione che forse, a causa della pandemia, tutti quanti stiamo imparando a nostre spese: ridimensionare le attese, desiderare il possibile. Less is more, altro che vacanze esotiche. Dopo oltre un anno di isolamento, la nuova felicità assomiglia molto a un giro tra le corsie dell’Esselunga senza indossare la mascherina.