Gli scienziati naturali da tempo sono sostanzialmente unanimi nel metterci in guardia su due parallele emergenze: la crisi climatica e la drammatica perdita di biodiversità a cui assistiamo con la cosiddetta “sesta estinzione di massa”.
In entrambi i fenomeni le responsabilità umane sono indubbie ed evidenti. In tempi più recenti gli scienziati sociali si stanno sempre più mobilitando attorno ad un’altra parallela drammatica emergenza: la crescente disuguaglianza, in un mondo dove ricchezze e redditi prendono sempre più le stesse strade grazie a un approccio che dagli anni 80 ha dominato le decisioni politiche dei governi di tutto il mondo, favorendo patrimoni e rendite a scapito di ambiente e lavoratori.
Una vera e proprio monocultura, foriera di gravi conseguenze.
La crisi climatica e ambientale e la crisi di disuguaglianza possono amplificarsi a vicenda.
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La transizione ecologica comporta un cambiamento profondo e permanente della nostra società. Tutto è in discussione: dove abitiamo, che cosa e come lo produciamo, quanto e come ci spostiamo, che cosa e quanto mangiamo, persino il nostro linguaggio e il modo in cui prendiamo decisioni collettivamente.
La sfida è su almeno quattro piani: quello strettamente tecnologico, quello politico, quello dell’economia (reale e finanziaria), oltre che, ovviamente, quello delle scelte e dei comportamenti personali.
La soluzione non può infatti essere puramente tecnologica: continuare a consumare tutto indiscriminatamente anche con tecnologie efficienti e rinnovabili ci porterebbe comunque a confrontarci con i limiti fisici del pianeta.
Allo stesso tempo non può essere puramente politica: non esiste un dittatore saggio, onnisciente e onnipotente in grado di imporre i cambiamenti necessari se non sono al contempo desiderati dalle persone. E non possono essere le aziende e gli istituti finanziari a farsi carico del cambiamento se il sistema complessivo li dovesse penalizzare per le loro scelte virtuose.
Se davvero vogliamo una società capace di futuro, serve il contributo di tutti. E serve in fretta: il tempo sta scadendo e le opportunità che si sono aperte negli ultimi mesi non si ripresenteranno facilmente. Abbiamo bisogno di un disperato realismo e di un ostinato ottimismo.
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La transizione ecologica è quindi complessa perché è fatta di tante diverse transizioni, fra loro collegate, ma che hanno obiettivi temporali diversi, e diversamente impegnativi. Sarebbe interessante sapere da chi conosce la realtà delle dinamiche ministeriali e governative se sia davvero utile accorpare in un unico superministero così tanti temi, o se sarebbe stato meglio limitarne il campo d’azione (ad esempio all’azione sul clima), definendo obiettivi ambiziosi ma chiari e circoscritti, e lasciare ad altri ministeri (dell’Ambiente, dell’Agricoltura) le altre politiche che hanno a che fare con l’ecologia. Nella Commissione Europea la Direzione generale all’azione sul clima è stata affiancata alla Direzione generale ambiente, non l’ha sostituita. Il suo commissario, Franz Timmermans, è anche vicepresidente della Commissione europea. Fra le diverse transizioni, quella che ha a che fare con il clima e l’energia è oggi quella con obiettivi definiti e tempistiche che non è esagerato definire drammatiche.
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L’Europa affronta ora un momento cruciale. Nel 2021, il pacchetto di ripresa dell’Unione permetterà agli stati membri di compiere grandi passi avanti verso il raggiungimento degli obiettivi climatici. Tuttavia, questo non è scontato. Gli impatti sociali ed economici della pandemia devono ancora manifestarsi completamente. In questo contesto e in un ambiente politico tradizionalmente instabile, la legge europea sul clima, acquista ancora più importanza nell’offrire gli strumenti necessari per gestire al meglio questa transizione, e far si che l’Unione europea non perda la rotta verso i propri obiettivi.
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I nodi da sciogliere sono molteplici, come anche le opportunità da cogliere in una trasformazione che, se ben condotta, potrà davvero cambiare i connotati a questo Paese, a partire dal disinnesco delle tensioni geopolitiche da sempre derivate dalla dipendenza dai Paesi produttori, passando per la redistribuzione del reddito e dei benefici derivanti da un comparto che fino ad oggi è stato, salvo rarissime eccezioni, pressoché oligarchico e foriero di diseguaglianze.
Le risorse del Next Generation EU, da questo punto di vista, vincolate per definizione al Green New Deal e al sostegno alla transizione ecologica, rappresentano un’occasione unica e irripetibile. Occasione che non dovrà essere sprecata all’inseguimento di tecnologie ancora tutte da costruire e dimostrare (come ad esempio la fusione nucleare, che da 50 anni circa dovrebbe essere in grado “da un momento all’altro” di fare la differenza, senza mai farla; come le tecnologie di cattura e sequestro della CO2 che, ammesso e non concesso che riescano davvero ad eliminare dal ciclo quantitativi significativi di anidride carbonica, continuano ad essere caratterizzati da elementi di insostenibilità ambientale serissimi, dai quali dovremmo imparare a prendere le distanze al più presto).
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cambiamenti ambientali conseguenti ad alterazione dei sistemi climatici intaccano non solo l’economia delle risorse ma la capacità di dare senso al mondo e al futuro. Per molte popolazioni del Sud perdere un ghiacciaio o il proprio paesaggio e ambiente, è la perdita della capacità di orientarsi, è scomparsa di relazioni con soggetti per definire il proprio futuro. E ciò vale anche per noi, invischiati in un’inevitabile complicità con l’immaginario del carbonio, tra idee padronanza e risultati distruttivi delle attuali emissioni climalteranti, tra idee di natura edenica e nature perturbanti che riemergono. Ciò compone una rottura di un patto intergenerazionale: l’inazione delle decisioni politiche ed economiche o le politiche green rischiano di cambiare la rappresentazione del mondo, ma non della realtà e delle pratiche quotidiane basate sui fossili.
Ciò che possiamo decidere oggi, come l’uscita veloce dall’economia del carbonio, intacca il futuro prossimo dei figli, simbolici o reali.