Fare i conti con il proprio passato è sempre difficile. Il Belgio lo sa bene: per lungo tempo il Paese ha ignorato la sua storia coloniale e l’impatto di una figura come re Leopoldo II (1835-1909), colui che ha spinto la nazione ad avere un proprio impero conquistando la Repubblica Democratica del Congo, diventata addirittura un suo dominio personale. Gli ultimi anni hanno però segnato un cambio di passo: nel 2020 quando, sull’onda lunga delle proteste per il Black Lives Matter, alcuni attivisti hanno preso di mira le statue del re in alcune città e ad Anversa l’hanno addirittura tirata giù dal piedistallo. L’attacco alle statue di Leopoldo II è stato un episodio limite che ha evidenziato non solo l’eredità culturale divisiva del re ma, forse, anche il passaggio definitivo del Belgio a una nuova fase del rapporto con la propria storia coloniale.
La prova esiste eccome e la si trova tra le sale del Museo Reale per l’Africa Centrale di Tervuren, comune fiammingo ad appena 18 chilometri da Bruxelles. Anche dopo la fine del dominio belga in Africa e l’indipendenza della sua colonia più grande, il Congo (diventato Stato indipendente nel 1960), il museo ha continuato per lungo tempo a raccontare la storia coloniale del Paese come se nulla fosse, fino al 2013. «Fu allora che decidemmo di rinnovare profondamente la nostra esposizione e di chiudere il museo per 5 anni», racconta il direttore Guido Gryssels, raggiunto telefonicamente da Linkiesta.
Nel 2018 la riapertura. «Durante il periodo di chiusura abbiamo cercato di evidenziare nelle nostre esposizioni una consapevolezza più profonda del passato coloniale belga. Ne è valsa la pena: nel 2019 il nostro museo ha infatti toccato le 350 mila presenze. La pandemia le ha poi ridotte, visto che nel 2020 sono state solo 190 mila. Un calo figlio purtroppo delle tante restrizioni presenti, che incideranno anche sulle presenze del 2021», sottolinea il direttore del Museo Reale.
E adesso una novità che potrebbe cambiare in maniera definitiva la storia del Museo: Thomas Dernine, Segretario di Stato per la Politica Scientifica, ha infatti proposto di restituire alcuni beni museali acquisiti illegittimamente alla Repubblica Democratica del Congo. «Tutto ciò che è stato acquisito con la forza e la violenza in condizioni illegittime deve, in linea di principio, essere restituito. Gli oggetti che sono stati acquisiti in modo illegittimo dai nostri antenati, dai nostri nonni, bisnonni, non ci appartengono. Appartengono al popolo congolese. Punto. Il patrimonio culturale è una delle ricchezze sfruttate dalle potenze coloniali e prendere migliaia di oggetti dalle colonie priva i cittadini dell’ex colonia dell’accesso alla propria storia, cultura, creatività e spiritualità dei loro antenati», ha dichiarato il segretario di Stato in una nota. A stimare quanti beni potrebbero rientrare nella definizione ci pensa il direttore del museo, smentendo l’iniziale cifra di addirittura 35/40 mila pezzi coinvolti, un terzo degli oggetti in esposizione.
«Se manteniamo la definizione data dal Segretario Dernine almeno mille oggetti sono da ricondurre ad acquisizioni ottenute con la violenza, ma se poi allarghiamo la definizione a tutti quelli ottenuti in modo illegale arriviamo almeno a 3 mila e 500 oggetti. Visto che di molti andrà accertata la reale provenienza, lavoro comunque che richiederà anni, probabilmente ci attesteremo tra i 2 mila e i 3 mila oggetti». La valutazione definitiva sarà però realizzata da una commissione mista belga-congolese, operativa a partire dal 2022, che deciderà beni coinvolti, tempi e modi per la restituzione.
Il rapporto Bruxelles-Kinshasa
La questione resta però l’effettiva restituzione. «Serve tempo. Per il momento il Congo non ha chiesto la restituzione di questi beni ma saranno comunque loro a decidere. A nostro avviso è necessario che le autorità belghe stringano un accordo con quelle congolesi per decidere come comportarsi con questi oggetti. E non va trascurato un altro aspetto come la conservazione delle opere. Nel 2019 a Kinshasa hanno sì un Museo Nazionale che però può ospitare solo 12 mila pezzi, mentre altri 38 mila sono conservati in condizioni non ottimali. Nel Paese mancano siti di stoccaggio e personale formato», sostiene il direttore Gryssels. Non ci sono però solo beni museali nella rotta tra Bruxelles e Kinshasa: dovrebbe presto tornare in Africa anche una vera e propria reliquia come il dente di Patrick Lumumba, il fondatore dell’attuale Repubblica Democratica del Congo, morto nel 1961.
Inizialmente prevista nel 2020, la restituzione è stata rinviata al gennaio 2022 a causa della pandemia e potrebbe davvero rappresentare il primo tassello di una rinnovata collaborazione tra autorità belghe e congolesi. Nonostante l’attuale silenzio, infatti, il desiderio del governo di Félix Tshisekedi, presidente della Repubblica Democratica del Congo, è quello di poter ampliare e rendere migliore il proprio Museo Nazionale. «Un giorno, quel patrimonio dovrà tornare nel nostro Paese, ma deve essere fatto in modo organizzato e concertato con i belgi, che dovremo ringraziare per averci aiutato a mantenerlo», dichiarò il presidente all’inaugurazione delle sale espositive di Kinshasa nel 2019.
La percezione coloniale
Il passaggio di proprietà e l’eventuale accordo di cooperazione con il Congo rappresenterebbe un modo innovativo per il Belgio di affrontare la questione coloniale. «Rappresenterebbe un unicum per tutta Europa, indubbiamente», evidenzia Gryssels. In altri Paesi, come Paesi Bassi, Francia o Germania, la questione si è posta da tempo, senza però arrivare alle conclusioni di Bruxelles.
L’unica a esserci arrivata più vicina è la Francia che, a dicembre 2020, ha approvato all’unanimità in Assemblea Nazionale un disegno di legge che prevede la restituzione di alcuni beni culturali portati nel Paese durante il periodo coloniale come “bottino di guerra” da Stati come il Benin e il Senegal. In Belgio però c’è anche qualcosa di più secondo il direttore. «Da tempo l’approccio belga alla questione è cambiato. Un tempo la schiacciante maggioranza dei belgi era a favore della colonizzazione, oggi i tre quarti sono per un approccio più consapevole, che evidenzi anche i problemi e le criticità», sostiene il direttore. Nel predominio di questa visione incide anche la giovane età dell’esecutivo. «Il governo guidato da Alexander De Croo ha una media di 43 anni: molti dei ministri non hanno mai visto il Congo sotto dominazione belga ma come uno Stato indipendente. Anche questo incide».