Il re costruttore Chi è stato Leopoldo II del Belgio e perché vogliono buttare giù la sua statua

Il passato coloniale è un tema tabù nelle scuole belghe. Il Paese è diviso a metà tra chi esalta uno dei più grandi monarchi di sempre e chi ricorda che sotto il suo regno il Congo è stato depredato delle sue ricchezze e sono morte 10 milioni di persone

Afp

Le proteste in Europa per l’omicidio di George Floyd hanno un significato diverso nei Paesi dove il passato coloniale è presente in ogni via e piazza. Come nel caso del Belgio dove attivisti e manifestanti hanno preso di mira la statua di re Leopoldo II in numerose città: Bruxelles, Gent, Ostenda e per ultima Anversa, chiedendone la rimozione.

Proprio ad Anversa, la statua raffigurante uno dei “più grandi re del Belgio”, il cui nome completo è Leopoldo Luigi Filippo Maria Vittori di Sassonia-Coburgo-Gotha è stata tolta dal piedistallo. La presenza di re Leopoldo II, non si limita alle statue in suo onore, ma si estende anche a un gran numero di piazze e strade che portano il suo nome, e che si ritrovano un po’ ovunque all’interno del Paese. È così evidente quanto questa figura sia stata e sia ancora rilevante nel passato e nel presente del Belgio: un paese enormemente complesso e diviso sotto vari punti di vista (linguistico, culturale, politico, economico) e di cui da fuori si fa quasi fatica a immaginarne un passato di unica potenza coloniale, che trascende e supera le differenze interne.   

Di origini tedesche, il secondo figlio di Leopoldo I del Belgio e della sua seconda moglie, la principessa francese Luisa d’Orléans, Leopoldo governò il Paese per circa 40 anni, dal 1865 al 1909. È passato alla Storia come il “re costruttore”. Peccato però che i tanti progetti del suo regno siano stati finanziati depredando soprattutto di avorio e gomma l’attuale Repubblica Democratica del Congo, colonizzata nel 1885 con l’istituzione del cosiddetto Stato “Libero” del Congo. 

Leopoldo II non è infatti ricordato soltanto per le opere architettoniche che ha fatto costruire, ma anche per essere responsabile di una delle più cruente operazioni di colonizzazione durante la storica “spartizione dell’Africa” da parte delle potenze europee a partire dal 1880 fino all’inizio della Prima Guerra Mondiale.  

Secondo gli storici durante il suo regno sono morte circa 10 milioni di persone in Congo: poco meno dell’intera attuale popolazione del Belgio, che sia aggira attorno agli 11 milioni. Si tratta di un vero e proprio genocidio, caratterizzato anche da aberranti forme di schiavitù, violenza e tortura nei confronti della popolazione autoctona.

Le proteste dei belgi contro il loro re simbolo del passato coloniale non sono un fenomeno recente, ma vanno avanti già da almeno una quindicina di anni. «Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni non è una novità», spiega Benoît Henriet, professore di storia contemporanea alla Vrije Universiteit Brussel, specializzato in storia coloniale e postcoloniale del Congo.

È piuttosto la prova tangibile «di un fenomeno presente non solo all’interno di questo Paese, ma anche in altri Stati europei e non, come il Regno Unito, il Sudafrica o gli Stati del Sud degli Stati Uniti, fortemente segnati da un passato colonialista e dalle  conseguenze che questo passato ha sul presente».

Le immagini a cui assistiamo sembrano trasmettere l’idea di un Paese che più o meno uniformemente contesta il suo passato coloniale e le violenze che lo hanno caratterizzato. In realtà la situazione non è così lineare come sembra. «Da circa 20 anni a questa parte stiamo assistendo a una crescita significativa di studi e ricerche che affrontano la colonizzazione del Congo in chiave critica», spiega Henriet.

«Solo in piccola parte questi studi riescono a raggiungere il cittadino medio belga. E nei pochi casi in cui storici e ricercatori vengono interpellati dai media, ci si limita a chiedere cosa sia realmente successo nel Libero Stato del Congo, se effettivamente si possa parlare di genocidio e se Leopoldo II ne debba esser considerato il maggior responsabile. Si tratta di interrogativi su cui la comunità accademica ha raggiunto un ampio consenso da tempo. Ma a giudicare da come i media tradizionali si rapportano a questa tematica, lo stesso non si può dire per quanto riguarda l’opinione pubblica in generale».

Il tema del controverso passato coloniale belga sembra essere più o meno un tabù anche a scuola. «Fino a questo momento gli insegnanti di storia delle scuole superiori non erano obbligati a inserire il colonialismo belga all’interno dei programmi scolastici», spiega Henriet.

Solo in questi ultimi giorni, i ministri dell’educazione di Vallonia e Fiandre, Caroline Desire e Ben Weyts (quest’ultimo tra l’altro appartenente al partito nazionalista conservatore fiammingo dell N-VA) hanno annunciato di voler introdurne l’obbligatorietà. 

C’è una parte di società belga che è ancora profondamente legata alla figura di Leopoldo II, e che lo esalta come uno dei più grandi re del Belgio. Anche se «negli ultimi anni una parte significativa della popolazione si è dimostrata pronta a fare i conti con il passato, e a mettere in discussione il ruolo che ha avuto la monarchia belga nella colonizzazione del Congo», chiarisce Henriet. 

Sono stati pubblicati libri sul tema che sono diventati veri e propri best-seller sia nella comunità francofona che in quella fiamminga; lo scrittore Lucas Catherine, autore del libro “On the evolution of Congolese history education in Belgium, ha organizzato tour turistici attraverso Bruxelles che individuano le aree della città in cui le tracce del passato coloniale belga sono più evidenti. La tematica è sbarcata anche in televisione, con programmi dedicati e molto seguiti. «Quello che ancora sembra rimanere invariato è la (mancata) risposta e reazione da parte delle autorità politiche e governative del Paese», conclude però Henriet. 

La critica alla colonizzazione del Congo è evidente anche guardando alla storia del Museo Reale per l’Africa Centrale di Tervuren (comune fiammingo alle porte di Bruxelles). Aperto per la prima volta nel 1910, fino all’anno scorso il museo di fatto esaltava il passato di gloria coloniale e imperiale del Paese, cancellandone interamente le atrocità annesse. Ed è con questo preciso scopo che il museo fu fatto costruire dallo stesso Leopoldo II, morto un anno prima della sua inaugurazione.

Dopo un periodo di circa 6-7 anni di lavori di ristrutturazione, il museo ha riaperto nel dicembre 2018, annunciando un cambiamento di narrazione e visione: non più una vetrina sul passato imperiale del Belgio ma piuttosto, una (tentata) valorizzazione della cultura congolese. L

’operazione però è riuscita solo in parte, soprattutto secondo il parere della comunità di attivisti e storici che riconoscono sì, il genuino tentativo di cambiamento di visione, ma ritengono al tempo stesso che si sia attuato un cambiamento solo esterno di facciata, che non va a toccare le radici del problema. «Se il museo può mostrare esempi tangibili di usi, costumi e cultura congolese, è perché la loro stessa presenza è diretta conseguenza ed eredità del suo passato coloniale e colonialista», chiarisce Henriet.

La rimozione delle statue di Leopoldo II (o di altre figure simili, sia in Belgio che altrove) riesce davvero nell’intento di scuotere le coscienze e alimentare un dibattito e un confronto sul tema, da parte non solo di attivisti e accademici, ma anche di opinione pubblica e autorità politiche? 

Secondo Henriet, bisogna far attenzione ad un particolare non secondario. «Nessun attivista chiede il semplice smantellamento delle statue, ma la decolonizzazione completa degli spazi pubblici». Questa può avvenire solo attraverso una serie strutturata e sistematica di interventi, che hanno come obiettivo quello di produrre una presa di posizione forte da parte di esponenti politici e governativi, diretti ad una valutazione critica della presenza coloniale.

«Non si tratta solo di tirare giù delle statue – mette in chiaro Henriet – ma di mettere in atto un programma che affronti il problema a più livelli: dagli esempi visibili del passato coloniale, all’inserimento di quest’ultimo all’interno dei programmi sia scolastici che universitari, passando per il razzismo sistemico ancora presente in modo significativo all’interno della società belga».