Fine pena maiIl problema culturale alla base della giustizia in Italia

La detenzione deve essere rieducativa per riportare alla società chi ha sbagliato. Ma gran parte della politica condivide e diffonde l’idea che in prigione si debba «marcire», come ricorda Paola Ziccone insieme al cardinale Matteo Maria Zuppi nel loro libro “Verso Ninive” (Rubbettino)

Cecilia Fabiano/ LaPresse

Paola Ziccone. Eminenza, ho dedicato tanti anni della mia vita e della mia professione a constatare che, nonostante la nostra Costituzione parli di una giustizia spalancata sul futuro, quello che il comune sentire e l’apparente desiderare delle persone impongono è una giustizia ripiegata sul passato.

Di fatto, cioè, il pensiero culturale più diffuso è che giustizia voglia dire “ripagare il male con il male”, che a un atto violento si debba rispondere con un altro atto violento, principio questo di poco difforme dalla legge del taglione.

Lei cosa ne pensa?

Matteo Maria Zuppi. La giustizia ha il compito di porre rimedio al male e di combatterlo. Non deve essere confusa la giusta pretesa punitiva dello Stato, con la vendetta. Possiamo però, chiederci: “Quando la giustizia si sottomette alla logica della vendetta, è realmente in grado di vincere il male?”. Se la giustizia si limita a essere solo retributiva, rimanendo legata alla logica cieca e senza prospettive della rabbia e della violenza, non credo riesca a porre termine alla spirale del male, sia dal punto di vista di chi commina la pena sia di chi la subisce.

Solo l’uscita dall’idea della restituzione del male ricevuto, fa sì che la giustizia si apra alla speranza e diventi capace di aprire prospettive di futuro e di rinnovamento. La giustizia, infatti, penso che trovi il suo compimento solo se è in grado di ridare a tutti, sia alla vittima sia al reo sia alla società stessa, la possibilità di un futuro, di una ripartenza, di un cambiamento.

Se la giustizia si limita alla logica della vendetta, diventa fine a se stessa e rischia di generare un movimento senza fine che, non estinguendo mai la rabbia e la violenza, permette che il male continui ad agire e a produrre le sue conseguenze.

P.Z. Si è aperto un tempo, questo della pandemia, nel quale si rende evidente ancora di più che siamo tutti creature vulnerabili. E che ci porta a indagare l’idea del male, al quale siamo tutti esposti. E tuttavia, insieme al problema del male, ci accorgiamo che a volte ci viene l’idea assurda del castigo, come sofferenza che ci è stata inflitta per purificarci dal male e che, come avviene per il contagio, occorre tenere separati i sani dai malati, i liberi dai prigionieri, i buoni dai cattivi. Così le nostre carceri sono piene di persone chiuse e rabbiose.

M.M.Z. Condivido queste affermazioni. Infatti, se perdiamo il patrimonio della storia del diritto che ha caratterizzato l’Italia e se, di conseguenza, scegliamo anche nell’uso della semantica, peggio se da parte di chi rappresenta le istituzioni, una giustizia solo punitiva – e dunque incapace di offrire speranza e possibilità di riconciliazione della persona con la società e con gli altri – è evidente che questo provocherà un aumento di rabbia.

Se la giustizia si risolvesse semplicemente con il contenimento e la privazione, è ovvio che nessuna persona potrebbe mai sopportare di essere solo contenuta, senza alcuna prospettiva ulteriore per il proprio futuro.

Inoltre, bisogna tenere presente che una tale gestione della giustizia, genera una conseguenza ancora peggiore, cioè far nascere l’idea disumana e illusoria che sia possibile costruire un mondo in cui vengono buttati via ed eliminati tutti quelli che hanno sbagliato. In merito, occorre ricordare che è molto più pericoloso e meno sicuro “buttare via la chiave” della cella e “lasciare marcire” in carcere chi ha sbagliato, piuttosto che seguire la via faticosa, ma intelligente, della rieducazione e della ricostruzione di un rapporto positivo con gli altri e con la società.

Non possiamo non notare che c’è molta, anzi, troppa sofferenza nelle carceri. Gli spazi di lavoro e gli investimenti per aiutare il reinserimento dei detenuti sono ancora largamente insufficienti e questo genera tanta disperazione. I problemi delle cure psichiatriche in carcere sono, ad esempio, un problema ancora da affrontare con mezzi adeguati.

Il tasso di affollamento del 120% rischia di farci tornare presto alla situazione per cui Strasburgo ha condannato l’Italia. E poi come non ricordare la tragedia dei suicidi, con un tasso di 11,4 episodi ogni 10 mila detenuti. In carcere ci si uccide quasi 18 volte di più che in libertà. Insomma dobbiamo vigilare e garantire la salute in carcere, diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione: ammalarsi in carcere è una disgrazia.

La giustizia retributiva, che ha come norma solo il castigo, si realizza comminando, in modo quasi automatico, a ogni reato, la punizione corrispondente. Ma la giustizia non è un semplice automatismo, tanto che, nella tradizione giuridica, c’è sempre stata, giustamente, anche una moderazione e personalizzazione della pena, derivante dall’esame dei tanti fattori che portano alla definizione di una punizione e che tengono presenti anche gli aspetti legati alla storia personale e sociale di ogni singola persona.

Ogni giudice è tenuto a giudicare facendo un necessario discernimento, per non far mancare al detenuto un accompagnamento che gli permetta di guardare al futuro, evitando che si arrivi a una condanna solo ripiegata sul passato. Questo spazio del discernimento, nella definizione di una pena, è fondamentale e importantissimo. Naturalmente è la prima cosa che viene messa in discussione appena capita qualche inconveniente con i detenuti.

Del resto, è più facile propagandare un ideale di giustizia “forcaiola” e incentrata sull’idea del castigo e della paura, piuttosto che parlare di futuro e di speranza per i detenuti. In questo modo, però, non si costruisce una giustizia vera.

da “Verso Ninive. Conversazioni su pena, speranza, giustizia riparativa”, di Paola Ziccone con il cardinale Matteo Maria Zuppi, Rubbettino, 2021, pagine 126, euro 12 

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