Il diritto alla salute sessuale oggi è un diritto riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Eppure, soprattutto in alcuni contesti, come quello della disabilità, è ancora un tabù: non se ne parla, non si conosce, non si fa nulla per stimolare il dibattito pubblico a riguardo. È proprio questa, invece, la missione del festival Ailoviù, organizzato dall’Associazione “La Stanza di Ilaria” il 16, 17 e 18 luglio a Castrolibero (Cosenza). Una tre giorni di incontri, dibattiti tra esperti e attivisti, proiezioni, mostre e spettacoli per parlare di sessualità nella disabilità e scardinare le barriere, soprattutto culturali, che ruotano intorno a questo binomio.
Obiettivo ultimo del festival è arrivare «a costituire un tavolo di lavoro collettivo di esperti, divulgatori culturali, attivisti e artisti per l’elaborazione di una proposta che garantisca anche in Italia il diritto alla sessualità alle persone disabili», spiegano da “La Stanza di Ilaria”.
«La sessualità è un tabù per tutti, non solo per chi ha una disabilità», dice a Linkiesta Max Ulivieri, personal life & love coach, responsabile del comitato “Love Giver” per l’assistenza sessuale alle persone con disabilità fisica, intellettiva e sensoriale. Al festival, Ulivieri porterà un intervento intitolato “La formazione degli Oeas (Operatori all’emotività, all’affettività e alla sessualità)”. È dal 2017 che il comitato si occupa di formare operatori specializzati, figure che svolgono un ruolo fondamentale in termini di accesso all’esercizio del proprio diritto alla sessualità, e che però ad oggi non sono riconosciute dalla legge.
«In altri paesi, come Germania, Danimarca, Olanda e Svizzera, ci sono persone che hanno fatto una formazione per aiutare le persone con disabilità a vivere l’aspetto relazionale e sessuale. Queste figure non hanno un riconoscimento come assistenti sessuali, ma il lavoro di sex worker è ampio e regolamentato. In Italia, invece, non c’è nemmeno una normativa per il lavoro di sex worker», spiega ancora Ulivieri.
Quella dell’Oeas, invece, è una figura altamente specializzata, formata anche sotto il profilo emotivo e affettivo. Anche per questo la definizione di “assistente sessuale” è poco adatta per spiegare il ruolo, troppo stretta rispetto alle funzioni che svolge. «L’obiettivo principale è quello di dare la massima autonomia possibile. Non si tratta di legare la persona all’operatore, ma nel percorso di 7-8 incontri, 10 al massimo, si punta a rendere la persona autonoma nella ricerca di un compagno o compagna, o anche nell’autoerotismo. Questo perché molte persone hanno difficoltà ad avere una sessualità anche con se stesse. In questo senso questa figura si differenzia dal lavoro di sex worker, che invece “fidelizza” il cliente», spiega ancora Ulivieri.
Ad oggi, il comitato LoveGiver ha formato una decina di operatori, e a febbraio è partito un nuovo corso che sta coinvolgendo 18 persone. Il percorso prevede un test di accesso fatto da uno psicologo, un corso di 200 ore e 100 ore di tirocinio. Si rivolge a uomini e donne di ogni orientamento sessuale. «In molti casi sono persone che già lavorano con la disabilità, educatori, infermieri, OSS, ma ci sono anche persone che nella vita fanno tutt’altro», spiega Ulivieri. La mole di richieste è di gran lunga superiore al numero di operatori: al comitato ne arrivano ogni giorno almeno una decina.
Nonostante la domanda, resta il fatto che si tratta di un argomento difficile, dove si ha difficoltà a trovare sostegno. E spesso e volentieri, purtroppo, sono le stesse famiglie ad essere in difficoltà ad affrontare l’argomento. «Le famiglie non hanno agio ad affrontare il tema, è forse più questo che non i motivi strettamente politici a spiegare perché non ci sia ancora una legge specifica in Italia», puntualizza Ulivieri.
Il progetto di legge che vorrebbe riconoscere la figura degli Oeas, infatti, non è mai andato in porto. Il presidente del comitato rammenta anche di averne parlato di fronte al ministro Speranza in un incontro pubblico, ma nulla è accaduto. Per cambiare le cose, servirebbe anche una grande azione di normalizzazione culturale: «Bisogna stimolare un’abitudine alla diversità dei corpi anche attraverso le immagini che vengono veicolate nei media», dice Ulivieri.
Il tabù, infine, va scardinato anche fra gli stessi disabili: «Molti non sono a favore: chi ha avuto la forza di vivere la propria disabilità in maniera positiva e ha avuto delle relazioni, crede che tutti possono fare così, ma non siamo tutti uguali», dice il presidente. «Dall’altra parte invece c’è la paura di cosa può pensare la gente comune: siccome noi chiediamo una persona specializzata, sembra che la persona con disabilità abbia una sessualità diversa. Ma il punto non è che le persone con disabilità hanno un bisogno diverso dagli altri, perché ce l’hanno uguale. Piuttosto si può avere bisogno di un aiuto per potersi sbloccare».
In fondo, si tratta di questo: mettere le persone in condizioni di poter agire. «Il diritto alla sessualità è a prescindere dalla presenza o meno di una disabilità», conclude il presidente di LoveGiver. «Non vuol dire che ognuno di noi ha diritto che lo Stato gli porti a casa il fidanzato o la fidanzata. Diritto alla sessualità significa che lo Stato si impegna ad abbattere tutte le barriere culturali e fisiche fra la persona e la possibilità di esercitare quel diritto».