Viviamo in tempi in cui la disonestà intellettuale è diventata la regola dominante del dibattito politico. Con i green pass, però, si sta arrivando a raschiare il fondo di un barile ormai divenuto esile come una carte velina. Scomodare i diritti costituzionali, paragonare Draghi ad Hitler, esibire una stella gialla da parte dei renitenti alla vaccinazione (è addirittura esagerato chiamarli No Vax, perché costoro sono portatori di un delirio ideologica, mentre la gran parte di coloro che scendono in piazza adesso sono soltanto dei terrapiattisti a loro insaputa) è un rigurgito di irrazionalità conclamata, perciò arrogante come capita a quanti intendono propagandare una tesi senza avere argomenti. Ciò premesso possiamo mettere il fila le questioni.
In linea generale il green pass potrebbe essere definito un rovesciamento della prassi. Durante i mesi funestati dal virus, prima delle vaccinazioni, per evitare che le persone infette diffondessero il contagio sono stati chiusi i luoghi di frequentazione comune: i locali pubblici, i negozi, gli ipermercati, i cinema e i teatri, gli uffici pubblici, mentre altri accessi sono stati limitati secondo regole e orari vincolanti. Per mesi si è persino adottata una misura da stato di guerra (o di Polizia) come il coprifuoco. Sono state chiuse le Chiese (fino a quando non sono stati disposti limiti di capienza), vietati i matrimoni e i funerali, rinviate le sepolture, spostati a data da destinarsi gli accertamenti sanitari per patologie diverse dal contagio, sospesi gli interventi chirurgici anche per casi piuttosto gravi.
A me sembra di gran lunga preferibile – anche sul terreno dei diritti – proibire l’ingresso in un ristorante a chi potrebbe contagiare gli altri avventori, piuttosto che chiudere il locale per impedire che quella persona entri. Il green pass non è di per sé un obbligo di sottoporsi alla vaccinazione, ma è un salvacondotto per la mobilità anche in luoghi in cui ciascuno deve farsi carico della sicurezza degli altri. L’alternativa è prevista: dimostrare attraverso l’esito di un tampone (che deve avere un prezzo politico, come per le mascherine) di non essere portatori del contagio. Non nascondiamoci la verità, però.
Perché l’operazione green pass abbia un senso bisogna sparare nel mucchio: non basta prendersela con gli avventori dei ristoranti e dei bar, è necessario risolvere il problema dell’ingresso nei luoghi di lavoro. La Confindustria ha ragione, i sindacati torto; anche perché il green pass è la logica conseguenza delle misure relative all’accesso nei luoghi di lavoro stabilite fin dall’aprile 2020 nei Protocolli sottoscritti dal governo e dalle parti sociali.
Certo, non era prescritto nulla a proposito della vaccinazione, per il semplice motivo che non erano ancora disponibili. Tuttavia, per entrare in azienda occorreva dimostrare, come era allora possibile, di non aver contratto il contagio. Il personale, prima di accedere in azienda, poteva essere sottoposto al controllo della temperatura e con un esito superiore a 37,5° gli veniva impedito l’ingresso, era posto in isolamento e doveva mettersi in contatto col proprio medico perché gli era inibito persino l’accesso all’eventuale infermeria. Lo stesso trattamento era riservato a chi avvertiva i sintomi tipici durante il lavoro.
Il ritorno in azienda dei contagiati da Covid-19 doveva essere preceduto dalla preventiva certificazione medica riguardante l’avvenuta negativizzazione del tampone. Era poi prevista una sorveglianza periodica per intercettare i casi di contagio. La logica di queste precauzioni condivise conduce a una conclusione: tutte queste pratiche, decise quando la lotta alla pandemia si faceva con l’acqua e il sapone, trovano una conclusione più razionale, efficace e operativa nel green pass.
Va bene che questo è l tempo dei nuovi diritti civili in nome dei quali si calpestano quelli che un tempo si chiamavano diritti naturali; ma non siano ancora arrivati a concepire che una persona abbia il diritto di mettere a rischio la salute o la vita di un’altra. Chi intende vivere al di fuori delle regole deve avere il coraggio di pagarne le conseguenze.