Rispondendo a una domanda sull’obbligo del green pass (o della prova tampone) per l’accesso nei posti di lavoro, Mario Draghi si è salvato in corner ammettendo che il problema esiste e che se ne sarebbe parlato con i sindacati.
Alcune sere prima, partecipando a un talk show televisivo, il ministro del Lavoro Andrea Orlando era stato appena un po’ più loquace (era ancora fresca di giornata la presa di posizione della Confindustria) affermando che non servono le decisioni unilaterali, che dall’inizio della pandemia erano stati concordati diversi Protocolli, che questa era la strada da seguire, ma che nel caso in cui i green pass divenissero obbligatori sarebbe stato difficile esonerare il mondo del lavoro.
In effetti, tutte le mattine, ci sono milioni di persone che escono di casa, salgono su mezzi pubblici, insieme ad altri come loro, entrano nei posti di lavoro (dove trovano i colleghi), mangiano alla mensa, escono all’orario stabilito, dopo essere passati per gli spogliatoi, risalgono sui mezzi pubblici e rincasano.
Ovviamente prima della fine della giornata queste persone possono svolgere tante altre attività. Ci siamo limitati a descrivere quelle compiute «in occasione di lavoro» perché il contagio contratto durante le azioni descritte è considerato infortunio sul lavoro.
Vedremo che rilievo ha questa norma (introdotta nel decreto Cura Italia, poi interpretata nel provvedimento successivo) nei rapporti tra datore e dipendente, anche se è un aspetto che viene ignorato dal dibattito, per ignoranza o malafede.
I sindacati rivendicano giustamente il merito di aver raggiunto lo scorso anno – in aprile, a poca distanza dalla deflagrazione della crisi sanitaria – Protocolli di sicurezza con le controparti che hanno consentito, dopo i mesi di lockdown, la riapertura dell’industria manifatturiera e di altri settori, in condizioni di relativa sicurezza.
Lo confermano anche i dati: nell’anno che va dall’inizio della pandemia al 30 giugno 2021 si sono verificati 176.925 denunce di infortunio sul lavoro da Covid-19, oltre un quinto del totale delle denunce di infortunio pervenute da gennaio 2020 e una incidenza del 4,2% rispetto al complesso dei contagiati nazionali comunicati dall’ISS alla stessa data.
Ben 682 denunce con esito mortale da Covid-19, circa un terzo del totale decessi denunciati da gennaio 2020 e una incidenza dello 0,5% rispetto al complesso dei deceduti nazionali da Covid-19 comunicati dall’ISS alla stessa data del 30 giugno scorso. Ma le prescrizioni previste nei Protocolli non erano battute sulle spalle e paternalistiche raccomandazioni («vi siete lavate le mani?’»). Abbiamo stralciato dal Protocollo capostipite del 24 aprile 2020, le regole previste per accedere ai posti di lavoro.
Come si fa a non accorgersi che queste precauzioni – assunte quando la lotta al vaccino si faceva a mani nude e procedendo per tentativi – sono assolutamente coerenti con la richiesta del green pass una volta che vi è la possibilità e la fortuna di sottoporsi a vaccinazione?
Che differenza c’è tra la certificazione della avvenuta “negativizzazione” e il green pass? E che cosa possono dire i difensori della libertà individuale quando era negato persino il diritto di avere un po’ di febbre? Non ci si vuole vaccinare? È assolutamente legittimo per l’azienda pretendere il rispetto dell’alternativa: esibire un tampone negativo effettuato entro le 48 ore precedenti.
Ovviamente, va da sé che solo nell’operetta buffa è possibile avere un personaggio che passa lunghi anni di vita a farsi infilare bastoncini cotonati nel naso a giorni alterni. Prima o poi occorrerà fare un punto e a capo. Anche perché, essendo il contagio da covid-19 – contratto “in occasione di lavoro” e quindi anche in itinere – un infortunio, nel caso di conseguenze gravi alla salute del renitente o di qualcuno che ha contratto l’infezione da lui, il datore di lavoro potrebbe essere chiamato a risponderne in sede civile e penale.
È infatti un suo obbligo esclusivo, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile, quello «di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Per quanto riguarda gli infortuni sul lavoro, si tratta di una “norma di chiusura”.
Come si vede non c’è alcun richiamo alla legge ma alla «esperienza e alla tecnica». Ne deriva che il datore può correre dei rischi in sede penale e civile, anche in assenza di una legge, per non aver tenuto conto della novità (non prevista ad aprile 2020) della scoperta di vaccini autorizzati dalle autorità sanitarie e della possibilità di una loro somministrazione. Io credo che il rifiuto reiterato di vaccinarsi – ove non esistano possibilità di smart working (ma quanto può durare?) o di cambiamento di mansioni in sicurezza per sé e per gli altri – possa costituire un giustificato motivo (soggettivo) di risoluzione del rapporto di lavoro.