Fine dell’amateur statusGli atleti universitari americani non saranno più sottopagati

La Corte Suprema degli Stati Uniti si è espressa in favore degli sportivi dei college, che da anni chiedevano compensi allineato al loro valore effettivo e a ciò che offrono alle proprie istituzioni scolastiche. È una decisione epocale

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Nella sua carriera da running back per West Virginia University, Shawne Alston non ha corso molte yard.

Pur giocando per quattro anni nei Mountaineers, Alston non è mai riuscito a catturare l’attenzione degli scout dell’NFL e dei media locali. Deve quindi aver reagito con un certo stupore vedendo il suo nome rimbalzare sulle home page e sulle prime pagine nazionali per tutta la scorsa settimana.

Alston è uno degli atleti universitari che hanno fatto causa alla National Collegiate Athletic Association (NCAA) per aver violato le norme antitrust ed essersi arricchita per più di un secolo alle spalle dei suoi giocatori, privati di un compenso all’altezza delle loro prestazioni sportive.

Oggi l’NCAA ha un giro d’affari superiore ai quattordici miliardi di dollari annui e l’ostinazione con cui continua ad ignorare le richieste degli atleti non è più giustificabile. Per il suo presidente, Mark Emmert, è necessario che la lega mantenga un amateur status che ne preservi i valori fondamentali.

I nove giudici della Corte Suprema americana, però, non sono dello stesso parere e nei giorni scorsi hanno accolto una decisione della corte federale che ritiene inammissibili le restrizioni attuate dall’NCAA per limitare i benefit economici ai propri atleti.

Secondo il giudice della Corte Neil Gorsuch è necessario che «i college e le università americane garantiscano un compenso allineato al valore effettivo dei giocatori e a ciò che offrono alle proprie istituzioni scolastiche».

Il suo collega Brett Kavanaugh si spinge oltre, sostenendo addirittura che «il business model dell’NCAA sarebbe illegale in qualsiasi altra industria statunitense».

Il giudizio della Corte Suprema – che non si occupava di college sport dal 1985 – ha inferto un colpo durissimo alla lega, contribuendo al dietrofront più clamoroso dai tempi della sua fondazione. Mercoledì scorso, infatti, l’NCAA ha sospeso la regola che impedisce ai suoi atleti di firmare accordi commerciali con aziende private. I cosiddetti Names, Images and Likeness (NIL) Rights sono da anni oggetto di polemica tra i giocatori e le scuole, che hanno potuto reinvestire i milioni di dollari versati dagli sponsor rendendo sempre più attraenti i propri programmi sportivi e cercando così di convincere i prospetti più interessanti del paese a giocare nelle loro squadre.

Da tempo l’NCAA chiedeva al Congresso statunitense di prendere posizione sul tema. Washington, però, ha continuato a nicchiare lasciando agli stati il compito di decidere. Alabama, Florida, Georgia, Mississippi, New Mexico e Texas hanno lasciato gli atleti universitari liberi di beneficiare dei propri diritti d’immagine.

Per evitare un caos normativo che ne avrebbe messo in pericolo l’esistenza stessa, l’NCAA ha quindi stabilito che i giocatori di tutto il Nord America potranno fare lo stesso, diventando testimonial dei brand e promuovendo le loro attività sui canali social.

È una decisione epocale che conclude l’era dell’amateur status e che annuncia l’avvento del professionismo nella lega universitaria. Una svolta destinata a lasciare il segno anche in NBA ed in NFL, abituate ad utilizzare l’NCAA come riserva ideale per aggiungere manciate di talento alle loro franchigie.

La sentenza della Corte Suprema e la conseguente rivoluzione sui NIL rights sono riusciti nell’impresa di unire un Paese polarizzato da anni su posizioni sempre più inconciliabili. Secondo Andy Staples di The Athletic, infatti, l’NCAA, i college e le università si sono attirate le antipatie sia degli elettori repubblicani, sostenitori del libero mercato, sia di quelli democratici, storicamente a difesa dei diritti dei lavoratori.

Una mossa spettacolare, degna di quella madness che rende l’NCAA unica al mondo.

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