Fiamminghi, valloni e campioniI Diavoli Rossi hanno unito il Belgio in cerca di una unica identità nazionale

La squadra che stasera affronterà l’Italia non è solo una formazione fortissima, composta da campioni. È anche la prima versione della rappresentativa di calcio che riesce a creare un senso di comunità in un Paese storicamente molto diviso al suo interno

AP / Lapresse

«Se dovessimo arrivare in semifinale De Bruyne e Hazard sarebbero arruolabili, ma c’è prima un’altra partita». È una delle prime risposte date in conferenza stampa dal commissario tecnico del Belgio Roberto Martinez, alla vigilia dei quarti di finale che i Diavoli Rossi giocheranno contro l’Italia. Si può leggere una punta di ironia nelle sue parole, o quanto meno di ottimismo: il ct sembra quasi rassicurare i suoi tifosi, dicendo loro che le due stelle della squadra ci saranno al turno successivo. Con 90’ ancora da giocare contro gli Azzurri di Mancini.

Le conferenze stampa di Martinez hanno due caratteristiche immediatamente riconoscibili: sono spesso misurate, nei toni e nei contenuti, e sono sempre in inglese, la lingua ufficiale della Nazionale belga. Per il Belgio l’inglese è una soluzione di compromesso, probabilmente l’unica possibile per non scontentare nessuno, in un Paese di 11 milioni di abitanti e un’identità praticamente impossibile da definire.

Il Belgio è nato dalla rivoluzione che portò alla secessione delle Province del Sud dal “Regno Unito dei Paesi Bassi”. Ma fin dalla sua indipendenza, nel 1830, il piccolo regno europeo ha sempre vissuto in un clima di divisioni interne segnate da linee di frattura religiose, economiche, linguistiche. L’identità del Belgio si è definita, nel tempo, soprattutto per sottrazione: non era una Repubblica, non faceva parte della Francia, non erano olandesi.

La lingua è rimasta un elemento esemplare dell’eterogeneità del Paese. Al Nord abita la maggioranza della popolazione, quella fiamminga di lingua olandese; a Sud ci sono i valloni, che parlano francese e sono un terzo della popolazione. Poi c’è Bruxelles, che fa storia a sé.

Fiamminghi e valloni hanno tradizioni, storie, culture diverse. Non è un caso che in Belgio ci siano partiti politici, scuole, ospedali che si rivolgono agli uni o agli altri. In tutto il Paese però c’è anche una forte componente di cittadini belgi di seconda o terza generazione, le cui famiglie sono arrivate dopo la Seconda Guerra Mondiale – soprattutto dall’Italia, dalla Spagna, dal Marocco o dalla Turchia – o intorno agli anni ‘90, con l’ondata migratoria proveniente dalle ex colonie del Belgio nella regione dei Grandi Laghi in Africa (Congo, Burundi e Ruanda).

Il risultato è una realtà molto eterogenea, inevitabilmente, sotto tutti i punti di vista. La Nazionale di calcio è una bolla: in quella maglia rossa con pennellate nere riescono a convivere perfettamente tutte le differenze del Paese, tutto il multiculturalismo, tutte le storie diverse, le distanze, le lingue.

Il vecchio logo della federcalcio belga portava una doppia sigla, Urbsfa e Kbvb, cioè le iniziali della federazione in francese e in olandese: l’ennesima dimostrazione che l’identità del Belgio è difficilmente inquadrabile in una cosa sola. Così nell’autunno 2019 la Royal Belgian Football Association ha presentato un nuovo marchio e un nuovo stemma della Nazionale, con la dicitura in inglese, proprio per provare a tenere tutti sotto lo stesso ombrello.

Contro ogni esercizio di retorica dello sport come “luogo di ritrovo” dell’unità Nazionale – come se il calcio esercitasse un incantesimo su tutti i cittadini, calciatori e non – in Belgio l’idea di una squadra unita e rappresentativa delle diverse anime del Paese è relativamente recente, ed è legata ai risultati del campo.

Se è vero che una rappresentativa Nazionale crea un obiettivo comune, è vero anche che non può obbligare a ricreare quel senso di comunità anche dopo il 90esimo. «Non si può considerare automaticamente una Nazionale di calcio multietnica come un segno di tolleranza o inclusione. La vittoria della Francia ai Mondiali del 1998, con una squadra definita “Black, Blanc, Beur” (beur che significa arabo, in gergo), non fermò l’avanzata politica del Front National qualche anno dopo, né cancellò la retorica anti-musulmana dilagante nel Paese», scrive Nadia Fadil in una pubblicazione apparsa sul portale Contending Modernities, dell’Università di Notre Dame (Indiana, Stati Uniti).

Per decenni la storia calcistica del Belgio è stata frustrata da un complesso di inferiorità nei confronti dei vicini olandesi – cioè quelli che hanno rivoluzionato il gioco almeno un paio di volte, e sempre grazie a Johann Cruijff. E una Nazionale che vive all’ombra di un’altra difficilmente può unire un Paese.

Qualcosa è cambiato, negli ultimi anni. Perché oggi De Bruyne, Courtouis, Lukaku, Witsel e i due Hazard sono amati in tutto il Paese, senza distinzione. I risultati sportivi hanno dato un nuovo volto alla squadra, ne hanno ridefinito la considerazione tra i tifosi.

I risultati non sono caduti dal cielo: l’attuale formazione è frutto di una programmazione attenta e puntuale della federazione. «I semi del cambiamento sono stati piantati intorno al 2000, quando il Belgio ha ospitato gli Europei con i Paesi Bassi – ma i Diavoli Rossi sono usciti ai giorni mentre gli Oranje sono arrivati in semifinale», scrive Sports Illustrated.

In risposta a quella delusione, i club hanno iniziato a lavorare a stretto contatto con la federazione per allinearsi su nuove priorità tecniche, tattiche e di sviluppo. Allo stesso tempo hanno creato un filo diretto con le scuole per garantire un maggior numero di allenamenti ai giocatori delle giovanili. Nei nuovi programmi sono stati inseriti elementi della scuola francese – come i centri di formazione federali – e quelli tipici della scuola olandese – soprattutto nello stile di gioco, nel controllo del pallone, nella disposizione in campo.

C’è voluto del tempo prima che le strategie portassero i loro frutti. Alle Olimpiadi del 2008, a Pechino, una squadra composta da Kompany, Fellaini, Dembélé, Vermaelen, Mirallas e Vertonghen ha sorpreso tutti chiudendo al quarto posto, sfiorando la medaglia per un soffio. Era solo un primo avvertimento alle altre Nazionali.

Quello è stato il momento in cui la curva di crescita del calcio belga si è impennata verso l’alto. Un’intera generazione di giocatori ha scoperto di avere grande appeal sul mercato: da Kompany, passato al Manchester City, ai difensori Vermaelene e Vertonghen, finiti entrambi nel Nord di Londra (uno all’Arsenal, l’altro al Tottenham), fino al passaggio di Fellaini prima all’Everton poi al Manchester United. I loro risultati hanno tracciato un percorso per chi è venuto dopo, hanno messo il Belgio sulla mappa del calcio europeo, e nei database di tutti gli osservatori.

La visibilità inedita ha permesso a questa generazione di talenti di andare oltre il campo. I nuovi volti del Belgio sono perfettamente integrati tra loro, sono una fotografia degli sviluppi culturali e politici del Paese: De Bruyne è fiammingo, Eden Hazard vallone, Lukaku figlio di immigrati dell’ex Congo belga, solo per citare i tre calciatori migliori. La definizione migliore è quella trovata da Sports Illustrated, che ha definito il Belgio del 2021 «un Davide sotto steroidi, che indossa l’armatura di Golia, brandendo le armi del gigante».

I Diavoli Rossi che affronteranno l’Italia a Monaco, per i quarti di finale di Euro 2020, oggi sono un colosso del calcio europeo, formato da giocatori moderni, riconoscibili, fortissimi. L’unica versione del Belgio in grado di dare un’identità e un obiettivo comune a tutto il Paese.

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