Sono così all’antica che i preservativi li compravano gli uomini, ma sono anche così straordinariamente dotata di spirito d’osservazione da aver notato, sin da quando ero piccina, le macchinette distributrici fuori dalle farmacie. Mettevi le banconote e prendevi il tuo pacchetto. Era perché erano bisogni fuori orario? In parte, ma una farmacia notturna c’è sempre; soprattutto, era perché esisteva il comune senso del pudore.
Adesso, che a qualunque espressione di più di due sillabe ne sostituiamo una inglese (e quasi sempre essa è «boomer»), al comune senso del pudore abbiamo sostituito lo shaming. Se una cosa non la fai in pubblico non è perché hai una qualche percezione della privatezza di certe funzioni e ti pare sensato tutelarla, macché: è perché questa schifa società patriarcale te ne fa vergognare.
Non esiste un territorio di riservatezza, esiste solo l’affermazione di sé attraverso la pubblicazione di funzioni private. Se non allatti al bar non sei una vera militante per i diritti, se non instagrammi l’assorbente mestruato non normalizzi il tuo essere donna, e – se invece di andare in farmacia o al distributore o al supermercato passando poi dalla cassa automatica – non chiedi a quello che ti porta la pizza di aggiungerci un pacchetto di preservativi non sei moderna.
Qualche sera fa ho ordinato un termometro su Glovo. Mi ero vaccinata, mi sentivo la febbre, non avevo un termometro in casa. La farmacia era a cento metri. Glovo ci ha messo quaranta minuti. Ero indignata: lo vedono che è un termometro, e se la prendono comoda come fosse una pizza che se arriva fredda pazienza, cosa sanno i fatti miei a fare se poi non sono conseguentemente premurosi. Io che qui sto morendo, e il fattorino che mangia il gelato.
La ragazza dei preservativi ha, a occhio, trenta e qualcosa anni. Nel video che ha originato grida al sessismo nelle ultime 48 ore, racconta di aver ordinato dei preservativi su Glovo, la bustina della farmacia era trasparente, il fattorino ha visto che erano preservativi, e da lì il gravissimo episodio («gravissimo» è letterale se lo dice lei e antifrastico se lo dico io: l’affare si complica).
Il fattorino citofona e le chiede di scendere. Già questo lei, che evidentemente ordina poco a domicilio, lo trova gravissimo: quando portano la pizza salgono, dice. Veramente la metà delle volte ti dicono che non hanno il lucchetto della bici o altro, e se puoi scendere: io dico sempre di no, e sono per questo una prepotente vessatrice dei lavoratori oppressi; se lei avesse detto di no sarebbe un’eroina dell’empowerment, e invece è scesa, e qui ho la prima domanda.
Scusate se do per scontato che la signora fosse in compagnia maschile, giuro che non lo faccio per il retaggio patriarcale di ritenere una ragazza sempre bisognosa di cavaliere che la protegga, ma per mera logica: se fosse stata in compagnia d’una donna, o d’un attrezzo meccanico, i preservativi le sarebbero serviti a poco. Scusate se sono all’antica, ma un uomo che dice «cara, i preservativi scendi a prenderli tu» non vi fa passare ogni velleità, disperate ragazze mie?
Scende, e lui le chiede il contatto di Instagram (ma il numero di telefono non si chiede più?). Non solo, le fa anche la battuta «stai lavorando, eh?», riferita ai preservativi. Quindi: ci prova, ma dandole della mignotta.
Per lei la situazione si complica. Poiché il comune senso del pudore è stato sostituito da parole inglesi a caso, non può offendersi per supposta mignottitudine: sarebbe slut shaming. Può tentare di farlo passare per maschio molesto perché lui le chiede il suo recapito, ma – per quanto il tempo in cui vive lei abbia abolito la riflessione sulle classi sociali, e «maschio cis» sia comunque in cima alle categorie di privilegio – il maschio che ha davanti è pur sempre un fattorino che le adulte liquidano con due euro di mancia: difficile pensare possa imporle alcunché. Poi, statisticamente, è plausibile non sia bianco: vorrai mica passare per razzista lamentando un garbato provarci?
E quindi la signora opta per «ha violato la mia privacy». La tua privacy l’ha violata chi ha stabilito che i sacchetti devono essere biodegradabili e quindi trasparenti, temo. La tua privacy l’ha violata la cafonaggine del tizio che ti aspetta a casa invece di andare a prendere i gommini per il suo arnese, temo. La tua privacy la violi tu stessa dicendo a Glovo cosa mangi, quando scopi, se temi di avere la febbre.
Ma la debolezza dell’argomento non è rilevante, perché è una ragazza indignata che dice all’Instagram d’aver subìto un abuso. E perché abbiamo il perfetto cattivo a portata espiatoria: la multinazionale. È una settimana che invia messaggi di protesta a Glovo e loro non se la filano. (Purtroppo non ha pubblicato i messaggi, dev’essere un carteggio degno di Choderlos de Laclos. Ho ordinato dei profilattici e il vostro fattorino ne ha tratto conclusioni sulla mia vita sessuale, io e la mia vita sessuale esigiamo delle scuse).
L’Instagram, che ha il senso delle proporzioni d’un bambino di cinque anni, la usa come spunto per dire che basta, è uno schifo, veniamo molestate ovunque, è successo anche a me. Scopro che l’Italia (sì, insomma: la porzione d’Italia che racconta i fatti propri a Instagram, oltre che a Glovo) è piena di ordinatrici di preservativi a domicilio. Tutta questa liberazione sessuale non avrà delle controindicazioni?
A un certo punto, tra i casi citati per analogia, c’è una dottoressa che, dopo aver vaccinato due pazienti, si è trovata da essi «aggiunta» su Facebook «senza chiedermi nulla su come mi sentissi al riguardo». Cioè: le hanno mandato una richiesta d’amicizia sui social, come qualunque sconosciuto ambosessi fa con qualunque sconosciuto ambosessi da che esistono i social.
Mi è tornata in mente la fumettista trans che, quando un’intervistatrice ha scritto che prima era maschio (non lo fosse mai stata, che transizione sarebbe?), ha commentato su Instagram «non ho MAI dato a nessun* il permesso di parlare del mio nome precedente». Il permesso?
Ma, benedette ragazze, il mondo non funziona così. La gente ci farà ogni tipo di violenza, dal chiederci l’amicizia su Facebook al rubarci il parcheggio fino all’intervistarci con parole diverse da quelle che avremmo usato noi parlando di noi, senza chiederci il permesso.
I fattorini rideranno di noi e dei nostri preservativi, le amiche rideranno di noi e delle nostre paturnie, i passanti rideranno di noi e della nostra macchia di sugo sulla camicia. Come vi è venuta questa idea che essere irrise sia la cosa più grave che può capitarvi, che serva il vostro permesso per parlare di voi o per mandarvi una richiesta su Facebook o per fare una battuta, che le multinazionali debbano tener conto dei vostri sentimenti?
Lo so, ve l’hanno venduta le multinazionali stesse, quest’illusione, illudendovi che a loro interessasse il vostro benessere, mica fatturare: comprati questo shampoo, noi non sbeffeggiamo la tua sessualità, noi siamo al tuo fianco nelle battaglie importanti, noi in omaggio ti diamo anche il balsamo così capisci quanto ci interessa l’intersezionalismo. Ma, benedette ragazze, con tutto quello che noi anziane abbiamo speso per farvi studiare, possibile che non riusciate a distinguere uno slogan dalla realtà?