Diciamolo subito: negli anni 70 (perché, dopo?) non c’è nessuno in giro come Tom Waits. In pura teoria sarebbe un cantautore, in fondo suona il piano e scrive e canta le sue canzoni. Ma le ambientazioni delle canzoni che scrive, e la maniera in cui le canta, sono anomale, molto più vicine a un poeta beat che getta i suoi stream of consciousness sopra un ritmo jazz. O a un pianista che in fondo alla sala, al buio, suona e mugugna e biascica via le sue storie per salvarsi, se non la paga, almeno l’anima. È difficile da definire, anche perché, disco dopo disco, il suo personaggio e soprattutto la musica sono in perenne evoluzione, fino al 1983 dove farà una scelta radicale di allontanarsi da tutto ciò che è piacevole, melodioso, ortodosso. È uno dei cantori della Città degli Angeli, ma quelli dalla faccia sporca, quelli caduti e che non hanno neanche tanta voglia, figurarsi la forza, di rialzarsi.
All’inizio è totale l’identificazione con Los Angeles, anzi, con una certa Los Angeles: quella notturna, che gravita intorno a Hollywood, ma non quella glamorous, scintillante e ricca. Piuttosto quella dei bar, dei night club di terz’ordine, delle stanze squallide di un motel dove soggiornano cockroaches e transitano sconosciuti, neanche troppo raccomandabili. Il suo palazzo dei sogni, probabilmente un po’ diversi da quelli della media, è il Tropicana Motel su Santa Monica Blvd., agli antipodi della Hollywood un po’ plastificata dove è incastonato.
Non che ci sia nato. Piuttosto, sul sedile di dietro un yellow cab, una notte di fronte all’ospedale di Pomona, contea di L.A., «col tassametro che girava», ha aggiunto col suo tipico humour. Cresce in una famiglia middle class nel sud della California, ma le tendenze vengono fuori presto, chissà se contribuisce papà, insegnante di spagnolo alcolizzato («è sempre stato uno tosto, un outsider»), la voce un po’ ruvida presa in prestito dallo zio.
Il giovane Tom, ribelle contro i ribelli, è apprendista delinquente giovanile, interessato più che a studiare a infrangere la legge, innamorato della poesia beat di Kerouac e Ginsberg e Burroughs. Ascolta i 33 che trova in casa, Bing Crosby e Cole Porter, Gershwin e Stravinsky. Gli show tv preferiti, non sarà un caso, Alfred Hitchcock e ’Ai Confini della Realtà’. Lo strumento è il pianoforte, sognato e visto nella vetrina di un banco dei pegni, leggenda vuole -la leggenda è lui, ovviamente- la mamma che di notte «sfonda la vetrina con un mattone e lo trascina a casa».
Dropout scolastico, lavora da Napoleon’s Pizza house, e incuriosito dai dialoghi dei proprietari e frequentatori comincia a prendere appunti. Lezioni di piano, e poi alla Heritage coffehouse i primi spettacoli, e le prime canzoni, le ’I Hope That I Don’t Fall In Love With You’ (la più ascoltata su Spotify) e quella che diventerà un classico degli Eagles, ’Ol’55’: troppo antisettica dal suo punto di vista, ma gli pagherà parecchie bollette.
Capito che stando a San Diego non andrà lontano (ma dedicherà alla città la malinconica ’San Diego Serenade’), parte alla ventura per Los Angeles. La scena di West Hollywood ruota intorno al Troubadour, un locale che è punto di ritrovo per quelli che ce l’hanno fatta e una vetrina, nelle hoot nights del lunedì, per quelli che sperano di farcela. È lì che lo sente Herb Cohen, manager di Zappa, che produce le prime canzoni e per due volte tenta di portarlo in tour con Frank ad aprire i suoi show. Non una buona idea, troppo lontano il suono, ostilità manifesta, gli tirano di tutto. Intanto esce il primo album per la Asylum, l’etichetta principe della musica losangelina, ’Closing Time’. Qualche articoletto e poco più.
Il proprietario, David Geffen, ha poi l’idea giusta e sceglie per lui il produttore Bones Howe: «Quando ci siamo incontrati, gli ho detto che i suoi testi avevano una qualità alla Kerouac, ed era sconvolto all’idea che sapessi chi era Kerouac. Gli ho detto anche che ero un batterista jazz ed è impazzito. Poi gli ho detto che quando lavoravo per Norman Granz (impresario e patron della Verve) aveva trovato in una stanza d’albergo dei nastri di Jack Kerouac che leggeva la sua poesia da The Beat Generation. Gli ho detto che gliene avrei fatto una copia, e questo ha messo il sigillo». Rimarrà il suo fedele maestro di incisioni per tutti gli anni 70.
Il nuovo album, “The Heart of Saturday Night”, 1974, è dedicato all’autore di ’On the Road’, il libro del 1957 che è stata l’iniziazione alla lettura per almeno due generazioni, che racconta la frenesia del viaggio (’«dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare…’»), dell’angoscia esistenziale, dell’illusione-delusione, della ricerca di Dio, o forse del padre, o più semplicemente di sè stessi. Scritta originariamente da Kerouac senza spaziatura su un rotolo lungo 36 metri con un ritmo frenetico e con poca punteggiatura ispirato dal bebop jazzistico, ha praticamente creato da sola il mito del viaggio, che è un tema fondante della vita americana e dei suoi immensi spazi.
Se Waits sulla copertina del primo aveva giocato al pianista che chiude il locale, sul secondo, copertina-citazione del Frank Sinatra di “In the Wee Wee Hours”, lui che esce dal locale con una bionda che gli butta un’occhiata, chissà se di compatimento o di interesse, il locale lo riapre e lo riempie di ballate, pigri jazz strascicati, monologhi sul contrabbasso e una voce appena più roca. Sulla title track, celebrata in chissà quante notti a Popoff, c’è un mondo intorno a quella vignetta: chioschi 24×7, auto che scorrono su e giù per il boulevard, braccia fuori dal finestrino, clacson che si mischiano coi suoni di birre stappate. Non sogna attrici e modelle, come fanno tutti qui. Una cassiera va benissimo, una cameriera ancora meglio. Il mito non è la terra promessa, basta e avanza un sabato sera da ricordare:
«T’hanno pagato venerdì, le tasche risuonano
Vedi le luci e hai un brivido, perché stai guidando con sei birre
e stai cercando il cuore del sabato notte…».
Per tutti noi in cerca di qualche anti-eroe, di qualcuno che racconti l’altra metà del mito della west coast scintillante, gente come lui, i Little Feat, Warren Zevon sono quelli giusti, ognuno diverso, ognuno tagliente, con un suo mondo la portare in scena.
Tom è naturalmente portato a celebrare i perdenti romantici, gli outsider sfigati, i rain dogs randagi che popolano la notte. Si costruisce il suo personaggio, come un attore alle prese con metodo Stanislawskij, e ben presto i protagonisti diventano lui stesso. Attinge alla tradizione del blues e del jazz della California anni 50, musica che si possa fare con un contrabbasso e una batteria a spazzole, al massimo con una acustica suonata un po’ di sghembo.
Poi, di colpo, come se ci fosse un momento preciso in cui la sera diventa notte, succede qualcosa: quello che all’inizio è un cantautore anomalo da ballate struggenti muta, la voce a poco a poco diventa sempre più rauca, rotta, cartavetrata, ingrugnita, quasi un rantolo fra sé e sé. La transizione è fra un Dylan della costa sbagliata e un Armstrong senza la tromba e senza la gioia. L’inizio della transizione si coglie su un doppio live in studio per un pubblico ristretto ma partecipe, “Nighthawks At The Diner”. Neanche una canzone del suo repertorio conosciuto, solo monologhi e swing biascicati, jazz vocale, e nessuna concessione. Discograficamente un disastro, ma la prima affermazione di identità controcorrente. Diventerà una regola, e per una decina d’anni la strada è segnata.
Il passo successivo è quello decisivo: “Small Change” è un album in cui melodia e jazz vocale trovano equilibrio, le composizioni diventano fascinose, gli arrangiamenti magistrali, l’orchestra usata per dare un tocco di classe a quel mondo capovolto, nel quale il perdente sopravvive con dignità, anche la dignità di una sbronza o di un due di picche sbattuto in faccia. Ogni tanto emerge, anche solo per un momento, uno slancio di romanticismo grandioso. Il fine non è più la fuga, ma la sopravvivenza dove si sta. La voce, quella definita come «intinta nel whisky, lasciata ad asciugare al sole e poi messa sotto dalle ruote di un’automobile», diventa sempre più un rantolo, una smorfia, un frontale. Ma quando c’è da cantare, Waits estrae dal fondo il velluto, sa interpretare anche canzoni d’amore, magari col finale imprevisto.
Parte ’Tom Traubert’s Blues (Four sheets To The Wind in Copenhagen)’ e se avete un cuore sensibile è meglio che lo portiate via, o che lo mettiate al riparo, perché potrebbe sciogliersi prima della fine di questa canzone, nata nel 1890 come una folk song, poi diventata una sorta di inno nazionale ufficioso, nella lontana Australia:
«Distrutto e ferito, e non è colpa della luna
Ho avuto quello per cui ho pagato finora
Ci vediamo domani Frank, hey mi presteresti un paio di dollari?…
Sono una vittima innocente di un vicolo accecato
E stanco di tutti questi soldati qui
Nessuno parla inglese ed è tutto sfasciato
E le mie Stacy sono bagnate zuppe
Per andare waltzing Matilda, waltzing Matilda con me…»
In origine, il suo ritornello da banda militare ’Waltzing Matilda’ (che almeno una volta nella vita, a meno che non ascoltiate solo trap, dovreste aver sentito) è una storia tristissima, dove il valzerare è il fuggire via, e mathilda la saccoccia con bastone da tenere in spalla di un uomo che rincorso dalla polizia pur di non essere catturato si suicida in un laghetto nel bush australiano. Qui, la melodia si fonde col resto della canzone e chiude ogni strofa di una ballata forse scritta a Copenhagen, “dove ho incontrato questa Matilda (Mathilde Bondo, cantante e violinista) ed è ispirata dai giri notturni fatti insieme. Quando stai ’waltzing matilda’, sei in strada. Non stai con la tua fidanzata, sei un vagabondo. In Europa per la prima volta, mi sentivo come un soldato lontano da casa e ubriaco e senza un soldo, perduto. E’ una canzone sul vomitare in un paese straniero”. Bones Howe la racconta diversamente:”Tom è andato giù a Skid Row (una zona depressa e scalcinata di downtown L.A.) per trovare stimoli per scrivere delle canzoni. Quando mi ha chiamato mi ha detto: ’Ho comprato una pinta di whisky di segale e me la son bevuta. Ogni uomo che ho incontrato laggiù, ce lo aveva ridotto una donna. Son tornato a casa, ho vomitato, e ho scritto la canzone”. Bones aggiunge: “quando qualcuno mi dice ’è stato già scritto tutto’, gli dico, ascolta queste due righe: “It’s an old battered suitcase for a hotel someplace/And a wound that will never heal”:
«È una vecchia valigia rovinata, per un albergo da qualche parte
E una ferita che non guarirà mai
Nessuna prima donna, il profumo è
Su una vecchia camicia macchiata di sangue e whisky
E buonanotte agli spazzini, al guardiano notturno
A quelli che mantengono accesa la fiamma e anche a Matilda»
La sontuosità di questa apertura, avvolta da una orchestra che ti porta in un luogo fuori dal tempo, setta subito l’asticella altissima. Ma l’album non tradisce, e i testi sono la cosa più vicina al sogno di Tom, quello di fondere il beat del jazz con la flashosità e gli angoli taglienti di una poesia nervosa, scattante, piena di dettagli che scorrono senza fine, difficili da tradurre in italiano ma che van via in un lampo anche senza comprenderli più di tanto.
’Step right Up’, contrabbasso batteria e sax che spingono, voce che grugnisce fra le sillabe e uno scat, tutto in rima (impossibile in italiano) col ritmo di un venditore di strada, un mago della contrattazione sull’angolo, mercatino di cincaglierie assortite, vale un tot ma ve lo dò a solo un dollaro:
«Step right up, venite qui, avvicinatevi
Proprio così, taglia il filetto, taglia a dadi, affetta
Non si ferma mai, dura una vita, taglia il prato
Taglia il prato e prende i ragazzi a scuola
Vi libera dai peli superflui, vi libera dalle macchie sulla pelle
Porta a destinazione una pizza, e si allunga, e si rinforza
E trova quella pantofola che era sparita
Sotto la chaise lounge da diverse settimane
E suona un Rythm Master cattivo
Trova la scusa per quella macchia di rossetto non voluta sul colletto
Ed è solo un dollaro, venite qui, avvicinatevi, step right up…»
Stessa cosa per ’Pasties and G-String’, altrettanto veloce e vietata ai minori, un biglietto d’ingresso per un club di strip-tease, nudità a basso prezzo, sempre sospeso fra l’entusiasmo del novizio e il sarcasmo di chi le ha già viste tutte: «È così brava che farebbe venire un morto/è bollente e pronta, cremosa e zuccherina/e la band fa schifo e così anche le canzoni».
Questa è musica che può eccitarti con i suoi ritmi jazzati, parole e slang che van via più veloci di quanto riesci a seguirle, ma sa anche toccarti nel profondo col suo fattore emotivo, perché quando Tom si rimette al piano, e inventa melodie struggenti non hai scampo. ’Jitterbug Boy (Sharing A Curbstone With Chuck E. Weiss…) ci ricorda che quel ’Chuck E’s In Love’ della futura fidanzata Rickie Lee Jones era, prima di tutto, il suo amico col quale passare le nottate sul marciapiede. C’è ’Bad Liver and Broken Heart (in Lowell), ’I Wish I Was In New Orleans (In The Ninth World)’, e la voce da ubriaco senza rifugio di ’The Piano Has Been Drinking (Not Me)’ che si guarda intorno in un night di terza:
«…e non riesci a trovare la tua cameriera neanche con un contatore Geiger
Lei odia te e i tuoi amici ma se non ti serve lei nessuna
E la biglietteria sta sbavando e gli sgabelli al banco sono in fiamme
E i giornali ti han preso in giro e i portaceneri li han portati via
Perché è il pianoforte che ha continuato a bere
Il pianoforte, non io…»
Ci sono momenti in cui la melodia è struggente, è come stare al cinema, una colonna sonora incantevole, le parole che ti portano dentro la storia, sei lì e guardi, una descrizione perfetta di cos’è la vita quando tutto è andato, non hai più nulla a cui aggrapparti, e solo il romanticismo del tuo blues può lenirti l’anima. ’Invitation To The Blues’ è quel genere di canzone:
«Beh, sta lì davanti alla cassa con un grembiule e una spatola
È una violazione in movimento, dai capelli alle scarpe
E ti senti come Cagney e lei sembra Rita Hayworth
Al banco dello Schwab’s drugstore
Ti chiedi se possa essere single, se è una solitaria o ami stare in compagnia
Devi essere paziente e trovare un qualche indizio
Lei dice ’come le vuoi, medie o sbattute’?’
E tu dici ’in qualsiasi maniera è l’unica maniera’, e stai attento a non scommettere
Su un tipo con una valigia e un biglietto in partenza
È una stazione di autobus stanca e un vecchio paio di scarpe
Questo non è altro che un invito al blues
Ma non riesci a levarle gli occhi di dosso, ordini un’altra tazza di Java
È proprio il modo che te la versa, scherzando con gli altri clienti
Pietà pietà mr. Percy, non c’è niente in Jersey
Solo quel relitto di uomo che ho lasciato indietro
E il sogno che stavo rincorrendo, e una battaglia con la bottiglia
E un invito aperto al blues…”.
Nel 1976 Waits passa del tempo anche al Chelsea Hotel, il leggendario hotel newyorkese, utopia urbana prima architetturale e poi di vita. Un luogo di libertà, anticonformismo, creatività e tolleranza designato ad ospitare artisti, che se non avevano soldi pagavano con le loro opere. Negli anni è stato approdo sicuro – a volte per un attimo, altre per anni- di bohemienne e immigrati e gente altolocata in cerca di anonimità, impiegati ed eccentrici, squattrinati e artisti leggendari. Tom sbarca verso il ’76, il Chelsea è il corrispettivo per affinità elettiva, vi risiedono sfigati come geni, tutti mischiati, è nel suo. Passa i giorni in camera – «male illuminata e color verde vomito, riviste porno e mozziconi di sigaretta ovunque», scrisse David McGee di Rolling Stone – a guardare film in mutande: una notte la chiave gira, entrano due, «È ok, buddy, puoi rimanere, dormiremo da questa parte», gli dicono, lo sconosciuto che si mette a guardare anche lui il western, prima di farsi convincere ad andarsene.
Il posto perfetto per incrociare beat e hippy, poeti e ubriachi, la 23esima il luogo dove una sera uscire a farsi due passi e una pizza e trovare la porta a vetri sbarrata, un teenager morto a terra, il sangue che cola in una pozza intorno al dispensatore di cingomma.
La storia la canta a cappella, solo un sax a tenergli compagnia, e dà il titolo all’album:
«A Spiccioli gli è piovuto addosso la sua stessa calibro 38
E nessuno ha battuto ciglio di fronte al flipper
E la sua lapide è una macchina per le gomme da masticare,
Niente più chewing gum o carte da baseball o cappotti o sogni
Qualcuno gli ha sfilato l’orologio, qualcun altro l’anello
E il ragazzo giornalaio il suo Stetson porkpie
E i vecchi tubercolotici starnutiscono e tossiscono
E qualcuno andrà a Sud finchè la cosa non si fredderà, perché
A Spiccioli gli è piovuta addosso la sua stessa calibro 38»
Chiude questo viaggio nelle notti di tutto il mondo il sogno modesto ma reale per uno costretto dal padrone dell’officina a lavorare fino a tardi, «Tom fa questo e Tom fa quello e Tom non fare quest’altro/ conta i soldi e pulisci il forno e getta via la spazzatura», “I Can’t Wait to Get Off Work (And See My Baby on Montgomery Avenue)”, lui da solo al piano, il ritmo delle parole che scivola sui tasti fin dentro il sogno di una giornata troppo lunga:
«Non vedo l’ora di smettere di lavorare e vedere la mia baby
Mi aspetterà leggendo una rivista
Pulisci i bagni e fallo bene,
Vorrei che venissi qui e mi spazzassi via col tuo amore,
Questa scopa dovrà essere la mia baby, se mi sbrigo
Forse finirò prima delle prime luci dell’alba».
Una speranza nella vita ci vuole sempre, no? Perché in fondo, anche nella vita di un beatnick intriso di noir hollywoodiano l’unico riparo possibile è una baby che ti aspetta. Ai tempi, Tom ha detto «Con quest’album ho cercato di risolvere un po’ quella immagine che avevo da cocktail bar, sdolcinata, di quello che piange dentro la sua birra. Stavo davvero cominciando a credere che ci fosse qualcosa di gustoso e meravigliosamente americano nell’essere ubriaco. Ho finito per dire a me stesso di smetterla con queste stronzate». Beh, diciamo che ci riuscirà a poco a poco, qui un po’ di tracce ci sono ancora.
Ma va detto che questo è un autore che, ancora in piena ascesa, ha un talento, un ritmo nella scrittura e una capacità descrittiva veramente straordinarie. Uno storyteller anomalo, ma grandioso. Negli anni 80 prenderà un’altra strada, cercando una musica stramba, fatta di sonorità e anche la voce diventerà, più che uno strumento, un suono. Notevole, ma io sono totalmente innamorato di questo periodo, in cui le melodie sono incantevoli, i testi irresistibili e la voce ha ancora tuta la sua umanità un po’ sgangherata. Un poeta davvero, Kerouac sarebbe stato orgoglioso di lui.
Il fascino assoluto di questo album, che è l’archetipo seguito dai tre successivi con la produzione di Howe (“Foreign Affairs”, “Blue Valentine” e “Heartattack And Vine”), ha una spiegazione, aldilà della maestria del trio che lo accompagna, ovvero Jim Hughart al contrabbasso, Shelley Manne alla batteria e Lew Tabackin al sax. Bones Howe lo sa bene: «Abbiamo ricostruito da Wally Heider studio la stessa maniera in cui ero solito fare i dischi di jazz negli anni 50. Volevo riportare Tom a quella maniera di fare i dischi, con lui e l’orchestra nella stessa stanza, cantando e suonando insieme. Non ho mai avuto paura di fare un album in cui tutti i musicisti respirassero la stessa aria. Che si mischino i suoni non è un problema. Anzi, è buona cosa, tiene insieme un disco. Era sempre circondato dalla musica e nel disco si sente. Non abbiamo mai usato le cuffie, mai»
Questa maniera di creare non morirà mai, perché è l’essenza stessa del portarti dentro la musica. Talento narrativo, grandi melodie, interpretazioni irregolari e sublimi. Questo disco ha tutto questo. Non so se è per tutti, ma per molti di noi è musica destinata a battere di emozione a ogni ascolto.