Pochi album (e per di più di debutto) hanno avuto la capacità di creare dal nulla un mito destinato a durare per sempre. È quello che succede in un anno incredibilmente ricco di creatività, un momento storico in cui il rock diventa maggiorenne, una forza tanto culturale quanto di spessore musicale.
C’è talmente tanto nel primo album dei Doors da lasciare ancora oggi a bocca aperta: citazioni letterarie e musicali che si rincorrono e creano una rete di messaggi culturali trasversali, resi ancor più potenti dalla straordinaria combinazione di una band underground irregolare e talentuosissima con un front man dionisiaco e sciamanico.
«Se le porte della percezione fossero pulite, ogni cosa apparirebbe all’uomo come realmente è: infinita. Perchè l’uomo si è rinchiuso in sé stesso, fino a vedere tutte le cose attraverso le crepe della sua caverna» è una citazione che Aldous Huxley, visionario filosofo e scrittore inglese, pubblica nel 1954 in “The Doors of Perception”: una elaborazione sulle sue esperienze psichedeliche con la mescalina (estratta dal fungo allucinogeno peyote, lo stesso che ispirerà i libri su “Don Juan” di Carlos Castaneda), che lo porta ad esperienze che variano dal “puramente estetico” ad una “visione sacramentale”. Due anni dopo tornerà sul tema con un secondo libro, “Heaven and Hell”.
La citazione originale però risale, e non a caso, a “The Marriage of Heaven and Hell” dello scrittore e pittore inglese William Blake: il libro, scritto nel 1793 durante la rivoluzione francese e illustrato dalle tavole da lui stesso dipinte, implica che l’Inferno sia non un luogo di punizione (come lo descrive Dante) ma un luogo di energia dionisiaca non repressa che contrasta con la percezione autoritaria e ordinata del Paradiso. La vita esiste in quanto contiene contrari. Parafrasando i proverbi biblici, Blake scrive «La via dell’eccesso porta al palazzo della saggezza».
Gli scritti di Blake ai tempi vengono considerati un lavoro del diavolo. Ma se lo consideriamo in termini moderni, Blake (in gran parte ignorato ai tempi e rivalutato solo successivamente) è un autore underground, in sprezzante sfida alla morale del tempo. Una controcultura, se vogliamo, che si collega a quella degli anni 60, il brodo primordiale nel quale nascono le migliori band americane del periodo. Di queste affermazioni, del culto dell’eccesso come viatico a un piano di consapevolezza, si nutrirà buona parte della cultura psichedelica che influenza così tanto la musica di quegli anni. E sembra una definizione perfetta per Jim Morrison, che nei Doors racchiude la funzione di cantante, maitre a panser, poeta e agit prop.
Sai che il giorno distrugge la notte
E la notte divide il giorno
Ho cercato di correre, ho cercato di nascondermi
Fai irruzione dall’altra parte.
Abbiamo rincorso i nostri piaceri qui
Abbiamo scavato per i nostri tesori là
Ma ti ricordi di quando abbiamo urlato
Fai irruzione dall’altra parte…
Fare irruzione, sfondare dall’altra parte: il brano che apre “The Doors”, e che viene pubblicato nel gennaio del ’67 senza grande successo come singolo, è la prima indicazione appena malcelata della necessità di andare oltre, di rompere le barriere, quelle mentali innanzitutto.
Di andare in cerca di qualcos’altro. Paradossalmente per un album rock, viaggia su una ritmica di bossa nova, anche se ben presto fra accordi acidi di elettrica e un assolo di piano elettrico (simile alla linea di piano di Ray Charles su “What I’d Say”) va subito altrove.
L’intercalare di “she gets high” – alti in quei tempi era sinonimo di essere fatti, in tutte le possibili variazioni sul tema- viene ritenuto troppo osè e viene censurato in un “she gets” seguito da un un gemito. Ce ne saranno altri, nel disco, e solo trent’anni dopo verranno ristabilite le parti vocali originarie. Censurati?: un altro elemento della costruzione del mito.
Il momento fondativo dei Doors è l’incontro fra Manzarek e Morrison a Venice Beach nel 1965: Jim – studente di cinematografia come Ray alla UCLA, l’Università di Los Angeles – gli dice di aver scritto delle poesie (come Moonlight Drive, che apparirà sul secondo album), e gli chiede se gli andrebbe di metterle in musica. La band nasce sulle ceneri del gruppo dei fratelli maggiori Manzarek, a cui si associa Ray, che ha studiato anche la musica classica europea, e nella quale alla fine rimarranno solo un batterista di origine jazzistica e un chitarrista che ha fino a due mesi prima ha suonato solo flamenco e folk sulla sua seicorde acustica.
È una combinazione singolare, come lo è la scelta di non avere un bassista, elemento cardine di qualunque gruppo rock, sostituito dal vivo (ma spesso anche in studio) dal basso a pedali di Manzarek sul suo piano elettrico Fender Rhodes. Del resto, anche la scelta di non suonare un organo Hammond, strumento molto in voga negli anni 60, ma un Vox Continental con quel suono da – appunto – garage band anni 60 sarà uno degli elementi distintivi del suono dei Doors. Tre musicisti originali, leggermente anomali come trio, capaci seguire o condurre le improvvisazioni sul palco per una figura totalmente imprevedibile come Morrison ne fanno un gruppo assolutamente unico: influenzeranno molto la scena rock, ma saranno pressoché impossibili da copiare o replicare.
La velocità di maturazione dei Doors, sia nella scrittura che nell’esecuzione, è pazzesca: se ascolti “London Fog”, album registrato nel primo 1966 nell’omonimo club losangelino – un po’ di musica, un po’ di striptease – dove i Doors si fanno le ossa, sono in fondo una delle tante band di garage rock che circolano sul suolo americano, anello di congiunzione fra il beat e il classic rock di fine decade: la chitarra distorta di Robbie Krieger, il drumming non ancora pulito e raffinato di John Densmore, Ray Manzerek il cui organo non ha ancora maturato la definitiva centralità, gli urli e i grugniti di Morrison sono alle prese, in gran parte, con un repertorio di cover dei grandi del blues: “Baby Please Don’t Go” di Big Joe Williams, “Rock Me baby” di BB King, “Hootchie Cootchie Man” di Muddy Waters, quel blues elettrico di Chicago che nello stesso periodo le loro controparti inglesi stanno riportando in auge con un’onda di ritorno che caratterizza il suono della decade.
Quando su suggerimento di Arthur Lee, il capobanda dei Love, il Presidente della giovane etichetta indipendente Elektra Jac Holzman va a vedere i Doors al Whiskey A Go Go, locale sulla Sunset Strip dove i Doors si sono guadagnati un ingaggio da resident band, gli elementi son già tutti al loro posto. Viene mandato in avanscoperta anche quello che sarà il loro primo produttore, Paul Rothchild, e vengono messi sotto contratto il 18 agosto.
Tre giorni dopo vengono licenziati in tronco dal manager del locale dopo che Jim, in pieno acid trip (per il quale ha mancato il primo dei due concerti della serata), su “The End” elabora oltre i contenuti edipici del brano, e trascende in una serie di – così vengono definite – “oscenità” ritenute inaccettabili. Il 24 agosto entrano in studio, e se il buongiorno si vede dalla notte, il film può cominciare.
Se, come ha scritto Rolling Stone, «i temi di un grande disco di rock sono sesso, morte e getting high», “The Doors” ne possiede in abbondanza. Il suo fascino, che poi sarà quello dei Doors, è proprio in quel misto di dolcezza e brutalità, eccitazione e stato onirico, temi da tragedia greca e citazioni della Repubblica di Weimar tedesca, psichedelìa cerebrale e visceralità del blues. Potrebbe essere inteso come un lungo sogno, pieno di metafore, ma è anche carnale come un amplesso. La musica dei Doors, istintiva e violenta, ma anche raffinata e dolcissima, fluisce accompagnando ogni visione, ogni recesso buio dell’anima.
Jim, non ancora immerso nella sua auto-mitizzazione del Re Lucertola, ha ancora una patina di innocenza ma anche quell’evidente voglia di andare oltre, di entrare in territori pericolosi. Ti tende una mano per accompagnarti, ma è come se fosse sull’orlo della vertigine, e ti invitasse a fare il salto con lui nell’ignoto, succeda quel che deve succedere.
Potrebbe essere un tuffo nell’inconscio, in quello stato di trance, morbidissimo, nel quale i confini fra reale e sogno diventano indefiniti. “The Crystal Ship” è letteralmente un abbandonarsi verso quello stato:
Prima che tu scivoli nell’incoscienza
Vorrei avere un altro bacio
Un altro lampo di opportunità di beatitudine,
Un altro bacio, un altro bacio.
I giorni sono luminosi e pieni di dolore
Racchiudimi nella tua pioggia gentile
Il tempo che hai corso è troppo folle
Ci rincontreremo, ci rincontreremo…
È uno dei primi esempi della poesia visionaria di Morrison, che ruota intorno a una metafora (crystal era lo slang per metedrina) di alterazione dei sensi, oppure semplicemente, come lui la descriveva, una canzone di addio a un amore che finisce (lo stesso tema e la stessa donna di “The End”), con la visione finale, mentre la musica sale e diventa grandiosa…
La nave di cristallo si sta riempiendo
Di mille ragazze, di mille brividi.
Anche “End Of The Night” viaggia sul contrasto fra luci e ombre, esterne e interiori:
Prendi l’autostrada verso la fine della notte
Fai il viaggio verso la mezzanotte luminosa…
Regni di piacere, regni di luce
Per chiuderla con due frasi riprese da Morrison da “Gli Auguri dell’Innocenza” proprio di William Blake:
Alcuni nascono destinati a dolci piaceri
Alcuni nascono destinati alla notte senza fine…
“Alabama Song (Whisky Bar)” è una canzone del commediografo tedesco Bertold Brecht, tradotta da subito in inglese da Elizabeth Hauptmann, musica ritoccata da Kurt Weill alla fine degli anni 20 e poi inclusa nell’opera “Ascesa e Caduta della Città di Mahoganny” nel 1930.
Incisa su 78 giri da una star dei tempi, Lotte Lenya, moglie di Weill. È una descrizione critica e sferzante della Repubblica di Weimar, decadente interregno tra la fine della Prima Guerra Mondiale e l’ascesa del nazionalsocialismo, e il brano è nel primo Atto, interpretato dalla protagonista Jenny e le sue amiche prostitute. «Mostrami la strada per il prossimo ragazzino» Jim lo cambia al femminile, eterosessualità da non mettere in dubbio, anche se poi dal vivo canterà il testo originale. I Doors ne fanno una versione a metà fra il cabaret e una musica zum-pa-pa-zum dal sapore carnevalesco, il gentile suono dello Marxophone, strumento a corda simile a uno zither (arpa dal suono di mandolino) suonato da Manzarek.
Il colpo di rullante e l’organo che aprono “Light My Fire” sono pura storia del rock, DNA inalterabile, il superclassico dei Doors e di quell’estate ’67. È la prima canzone che scrive Krieger (niente male, come inizio, Hall of Fame e pensione pagata per l’eternità), a cui Jim aggiunge la seconda strofa di testo, ed è il suono per cui i Doors verranno ricordati, anche se di hit ce saranno molte altre, e altre dimensioni sonore e soprattutto liriche da esplorare:
Sai che non sarei sincero, sai che sarei un bugiardo
Se ti dicessi ragazza non possiamo andare molto più in alto
Come on baby, accendi il mio fuoco
Cerchiamo di mettere a fuoco la notte.
È lunga, sette minuti di jam psichedelica che suona come se Johann Sebastian e le sue fughe settecentesche si unissero, nello spirito e nell’improvvisazione, con il John Coltrane di “My Favorite Things” (a cui si ispira Robbie per il suo assolo).
Lo cominciano a suonare per intero (siamo negli anni 60, ricordate, i brani alla radio durano ancora tre minuti), ma la Elektra preme per farne un edit molto più breve, senza assoli.
Sorprendentemente Jim dà l’ok, «vogliamo arrivare a tutti», ed è davvero una cavalcata trionfale, #1 nei singoli che trascina in cima alla classifica anche l’album, fermato solo da “Sgt. Pepper’s”.
Missione compiuta: i Doors escono dall’underground e inaugurano una stringa di singoli che solleveranno anche gli album che seguiranno, da scoprire con più calma. Quando però arriverà la richiesta di pubblicità per un’auto, «come on Buick, light my fire», le porte rimarranno sbarrate (e lo saranno per sempre, perché ci pensa il fido Densmore a garantire l’integrità delle canzoni della band e dei testi di Jim).
Nel settembre di quell’anno, quando appariranno all’Ed Sullivan Show, la produzione chiederà di levare il solito «couldn’t get much higher» (arridaie) e Jim dirà «sì, certo, canto altro».
Quando nel live in tv rimarrà esattamente come papà l’ha fatta, Jim farà spallucce «ah, sì, non me ne sono ricordato», e verranno bannati dallo show dove avrebbero dovuto apparire altre quattro volte. Questo – se ce n’era bisogno – aumenterà lo status di ribelli anticonvenzionali.
Si apre la porta della “Soul Kitchen”, e sei in un ristorantino a Venice dove servono soul food (la cucina piccante e casalinga tipica dei primi afroamericani), dove Jim amava stare fino a tardi, fino a essere buttato fuori:
Beh, l’orologio dice che è ora di chiudere ormai
È meglio che io vada, anche se mi piacerebbe rimanere tutta la notte
Le macchine sfrecciano riempite di occhi
Le luci della strada condividono un bagliore vuoto
La tua mente sembra ferita da una sorpresa intorpidita
C’è ancora un posto dove andare
Lasciatemi dormire tutta la notte nella vostra cucina dell’anima
Se mi cacciate mi aggirerò
Inciampando nei boschi di neon…
Arriva il classico del blues “Back Door Man”, scritto da Willie Dixon per quella montagna d’uomo di Howlin’ Wolf, «potrei mangiare più pollo di chiunque tu abbia mai visto», e i Doors diventano una grande band di blues, l’organo che pompa, Jim che grugnisce e ulula, come un leone in gabbia, con tutte le allusioni sessuali che il linguaggio del blues si porta dietro:
Sono l’uomo della porta di dietro
Gli uomini non sanno, ma le ragazzine capiscono…
Ci sono delle pop songs veloci e dinamiche, l’organo di Manzarek che conduce le danze, il ritmo tenuto sù da Densmore con invidiabile fantasia, come “I Looked At You”, “Take It As It Comes”, e la “Twentieth Century Fox”, nome della famosa Casa cinematografica, ma anche descrizione di una “volpe” del 20° secolo, ovvero di una donna glamorous, dedicata alla fidanzata Pamela Courson.
E alla fine, inevitabilmente, “The End”: dodici minuti estesi, dilatati, in cui poesia e musica si intrecciano, fra simbolismi e improvvisazioni musicali. Nasce come una canzone di addio alla prima fidanzata, Mary Werbelow, conosciuta quando entrambi frequentano il liceo a Clearwater, cittadina della Florida.
È il 1962, e il giovane Morrison, intelligente, provocatore, diverso dagli altri, ha già chiaro cosa vuole essere: un poeta. Camera da letto invasa da libri dei suoi riferimenti letterari (William Burroughs, William Blake, Hieronymus Bosch, Norman Mailer, Nietzsche, Marx, Rimbaud, Aldous Huxley, Jack Kerouac).
Jim osserva e scrive continuamente sui suoi quaderni, da lì nasceranno i testi dei Doors. Quando si trasferisce a L.A. Mary lo raggiunge, ma presto i suoi eccessi alcoolici e quella che lei definisce «la sua parte più oscura, auto-distruttiva», creano una frattura. Lei parte per l’India, perdono contatto. Il testo quindi in origine è un addio a lei e, Jim dirà poi in un’intervista, un addio all’innocenza della gioventù, della sua vita fino ad allora.
Il brano comincia piano, un arpeggio della chitarra:
Questa è la fine, meravigliosa amica,
Questa è la fine, la mia unica amica.
La fine dei nostri elaborati progetti, la fine
Di tutto quello che esiste, la fine…
Nessuna sicurezza, nessuna sorpresa
non guarderò mai più nei tuoi occhi…
«Ogni volta che ascolto quella canzone», dirà, «ha un significato diverso per me. Non so cosa volessi veramente dire. È iniziata come una canzone d’addio, forse a una ragazza, ma potrebbe essere a una forma di giovinezza. Non so. Credo che sia sufficientemente complessa e universale nel suo immaginario da poter essere quasi qualsiasi cosa tu voglia».
E poi, a proposito della fine come “unica amica”: «a volte il dolore è troppo da esaminare, o anche tollerare. Ma questo non la rende malefica, o pericolosa. La gente ha paura della morte anche più del dolore. È strano, la vita fa molto più male della morte. Quando muori, il dolore termina. Sì, immagino sia un’amica».
Ma “The End” presto si allarga, e diventa una performance nella quale Jim comincia ad improvvisare la sua poesia estremamente visuale, simbolica, oscura, onirica, «strane scene nella miniera d’oro… l’autobus blu che ci chiama, guidatore, dove vuoi portarci?».
Poi, arriva la parte che più scava nel profondo e nel profano, riprendendo il mito classico di Edipo, del padre e della madre. La musica si fa più stringente, più dura, è un recitato scandito, in cui ogni parola è minacciosa, la scena drammatica. Jim percorre i corridoi della sua psiche, sovverte l’ordine delle cose, si rifà alla teoria edipica di Freud: il desiderio del bambino di uccidere il padre e congiungersi con la madre:
Il killer si è svegliato all’alba, ha indossato gli stivali
Ha preso una maschera dalla galleria antica
E si è incamminato giù per il corridoio
È andato nella stanza dove viveva la sorella, e poi
Ha visitato il fratello, e poi
Si è incamminato giù per il corridoio
Ed è arrivato a una porta
E ha guardato all’interno
“Padre?” “Si, figlio?” “Voglio ucciderti”
Madre? Voglio…
Nasconde il gesto dietro un urlo terrificante. La chitarra di Krieger, che fino ad allora si è avvinta intorno alle parole con un suono circolare, che sa di raga indiano, si impenna, apocalittica. La band segue. Tutto si calma per un attimo, e poi si velocizza di nuovo, Morrison che (nella versione ristorata in tempi in cui l’arte non ha più paura di sé stessa) incalza con «Fuck…fuck!…fuck!…fuck me baby, yeah!» che a quei tempi (e adesso?) era impossibile non censurare.
Lo scandalo non è fine a sé stesso. È la maniera di Morrrison di innalzare il rock’n’roll, di riversare nelle canzoni immagini e squarci di sapore letterario, del resto dirà sempre che più che una rock star voleva essere creduto e apprezzato come poeta. Carismatico, sovversivo, sempre sospeso fra performance di successo e fallimento da eccessi, spesso deriso e parodiato per prendersi troppo sul serio da parte di coloro che consideravano il cercare nuove strade come tentativi giovanili presuntuosi.
Gli renderanno giustizia coloro che lo tenevano in palmo di mano come poeta e performer, come Patti Smith, o semplicemente come poeta, come Michael McClure, poeta della Beat Generation che dopo la sua morte ne leggerà i testi in una famosa performance-tributo.
A mio parere Jim e i Doors nel ’67 erano sulla frontiera, come il Living Theatre di Julian Beck e Judith Molina, il tentativo di creare il caos e di cavalcarlo: «Sono interessato a qualsiasi cosa che sappia di rivolta, disordine, chaos», anche a costo di bruciare sé stesso. Le versioni dal vivo di “The End” raccontano della sua e loro intensità, della capacità di tenere in mano il pubblico, di suscitare violenza e ribellione, di portare il teatro nelle performance e proprio per questo di renderle imprevedibili, estreme, senza freni.
Qualunque sia ciò che evoca, e Morrison stesso lasciava aperta ogni interpretazione, “The End” con il suo fluire fra improvvisazione, jazz, poesia e raga indiani è la quintessenza dei Doors e della musica psichedelica di quegli anni. Degno finale di un album in cui davvero si sposano il Paradiso e l’Inferno.