Magia cariocaAntonio Carlos Jobim, il più grande architetto della musica brasiliana

Con l’album “The Man From Ipanema” il musicista sudamericano ha portato la bossa nova nei salotti degli intellettuali newyorkesi infondendo insieme fantasia, classe e complessità. Un capolavoro che da una parte racconta in profondità l’uomo, la storia e le canzoni, e dall’altra raccoglie in tre cd l’anima del Brasile. Read&Listen

Atterrare A Rio de Janeiro è una delle esperienze memorabili della vita di un viaggiatore. L’aereo plana sopra la baia, sfiorando il Pan di Zucchero, lo sguardo in alto a sinistra verso il Cristo Redentore in cima al Corcovado e in basso sulle lunghe spiagge chiare, Ipanema e Capocabana le più famose ma non le uniche, i cocuzzoli delle colline adornati da quei collage di colori e dramma delle favelas, scendi planando sulla baia e atterri, se vieni dall’estero, nell’aeroporto internazionale Tom Jobim.

Tom è il soprannome che ha sempre accompagnato Antonio Carlos Brasileiro de Almeida Jobim, e la metafora che ti accoglie è perfetta. Perché Jobim, il più celebre dei carioca, come si definiscono i nativi di Rio, è la porta d’ingresso per la musica brasiliana, colui che fondendo jazz e samba e una tonnellata di coolness ha creato dal nulla, come in una magia irripetibile, la bossa nova. Musica di eleganza insuperabile, di atmosfera seduttiva, di complessità insospettabile.

Una musica così orecchiabile che sembra di semplicità quasi banale, anche se ben sappiamo che nulla è più difficile della semplicità. Ma le armonie di Jobim son solo apparentemente semplici. Quando nel ’72 uscì “Aguas De Marco”, uno dei grandi critici di jazz, Leonard Feather, scrisse: «È una di quelle canzoni con una struttura musicale estremamente complessa, se analizzata, ma suona incredibilmente spontanea e naturale all’ascolto»

Di questo Jobim è stato Gran Maestro per quasi quattro decadi, da quando nel 1958 uno sconosciuto Joao Gilberto ha preso una sua canzone, “Chega de Saudade”, e ha creato il template per tutte le bossa nove che seguiranno, fino alla sua scomparsa pochi mesi dopo esser tornato nel 1994 da trionfatore alla Carnegie Hall, dove aveva esordito in terra americana insieme ad altri artisti brasiliani nel 1962, sull’onda di quel ritmo che saliva dal Sudamerica e avrebbe invaso tutta la musica nordamericana: quel ritorno finale era per un concerto in cui sul palco c’era la crema del jazz contemporaneo, venuta lì a omaggiare quello che è stato paragonato, proprio per la sua contiguità al jazz e la capacità di estendere il proprio lavoro fra musica popolare e colta, a George Gershwin.

L’ex-studente di architettura, attratto irresistibilmente dalla musica, era diventato compositore, cantante, pianista e arrangiatore sublime. Il più grande architetto della musica brasiliana, infondendo insieme fantasia, classe e complessità. In ultimo, colui che l’ha fatta arrivare in tutto il mondo. Perché in fondo, come ha detto una volta il grande Frank Lloyd Wright, «l’architettura è solo musica pietrificata».

Una maniera altrettanto raffinata e completa di atterrare e di esplorare il mondo di Jobim è questo cofanetto, uno dei più belli mai concepiti, e non solo per la musica. Il design di “The Man From Ipanema” è un capolavoro: un libretto con doppia spirale, che da una parte racconta in profondità l’uomo, la storia e le canzoni, e dall’altra raccoglie in tre cd l’anima di Jobim: 23 delle sue canzoni interpretate da lui e da altri nel primo cd; un secondo di 15 con tutta la musica strumentale/orchestrale, molto jazz-oriented, che è stata una grande parte della sua carriera; e un terzo in cui cinque fra le sue canzoni più iconiche (“Desafinado”, “The Girl From Ipanema”, “Corcovado”, “Insensatez” e “Vivo Sonhando”) vengono presentate in interpretazioni diverse, ognuna delle quali un gioiellino in proprio.

In buste di tre colori, che si aprono e chiudono come fiori, foglie e pesci colorati, per raccontare anche la sensibilità nei confronti della natura che ha lasciato l’impronta in tutta la sua produzione. Una confezione preziosa per quello che contiene, e per come lo fa. Arte dentro e fuori. Una delle magie di quegli oggetti che si tenevano in mano, si aprivano come i pacchi a Natale e non erano solo una sequenza di file.

Quando Jobim nel ’63 pubblica “The Composer of Desafinado, Plays” e si affaccia sulla scena internazionale ha 36 anni e già molta vita alle spalle. È nato nel ’27 in un quartiere della classe media, Tijuca, da papà Jorge, scrittore e diplomatico, il cui prozio è stato senatore e consigliere dell’Imperatore Pedro 2°, e che aveva aggiunto Jobim al cognome in onore del paesino portoghese in provincia di Oporto da cui proveniva la famiglia. Quando i genitori si separano, con mamma e sorellina si trasferisce nel quartiere alle spalle della spiaggia che renderà immortale, Ipanema. È il secondo marito di Nilza, Celso Pessoa, che lo supporta nel voler lasciare gli studi di architettura e avviarsi verso la carriera di musicista, gli compra il primo pianoforte e gli paga le lezioni con Hans-Joachim Keollreutter, compositore tedesco che aveva introdotto la scrittura dodecafonica nella musica brasiliana.

Antonio Carlos comincia suonando nei club, per “gli ubriachi che chiaccherano”, lavora duro anche perché si è sposato, avrà due figli e ‘corre sempre dietro l’affitto’, spesso con l’aiuto del patrigno. La svolta arriva quando trova un ruolo come assistente del maestro Radamès Gnatalli, ottimo arrangiatore che gli svela i segreti di un nuovo mestiere.

Entra come arrangiatore negli studi della Continental, scrive canzoni ma è troppo timido per proporle, ma finalmente nel ’53 il cantante Mauricy Moura incide la sua prima canzone, ‘Incerteza’, scritta con l’amico d’infanzia Newton Mendonça con cui un giorno scriverà diversi suoi classici, per tutti ‘Desafinado’. Ma il suo nome comincia a girare: nel ’55 viene eletto terzo migliore arrangiatore dietro Gnatalli e Livio Panicalli e alla pari di Pixinguinha, il capostipite della categoria in Brasile. Quest’ultimo è una delle sue dichiarate influenze musicali, senza dimenticare i connazionali Ary Barroso e Heitor Villa-Lobos, compositore classico di inizio secolo, e l’impressionismo europeo di Claude Debussy e Maurice Ravel. 

Joao tom Desafinado live

Insomma, la carriera è avviata, ma non stabilmente. Quando sente da comuni amici nel bar Vilarinho, luogo di ritrovo degli intellettuali e bohemienne, che il poeta Vinicius De Moraes, tornato finalmente in patria dopo molti anni da diplomatico in Europa, sta cercando un musicista per una rappresentazione teatrale dei versi del suo poema Orfeu du Carnival, si offre e dopo che Vinicius gli ha spiegato per un’ora tutto il suo progetto, gli chiede con pragmatica schiettezza: «C’è da fare dei soldi?». Sta ancora inseguendo l’affitto.

L’amico lo sgrida, il poeta capisce. L’incontro funziona, e dopo qualche “orribile” tentativo scrivono insieme (al telefono perché De Moraes è fuori città) tre canzoni per quello che diventerà l’Orfeo Nero, il tema mitologico di Orfeo ed Euridice trapiantato nella moderna Rio e interpretato interamente da attori dalla pelle scura. Esordisce in un teatro dell’alta società, poi due mesi in un teatro popolare, le scenografie del grande architetto Oscar Niemeyer. Nel 1959 diventa un film, produzione francese e regia di Marcel Camus, che vincerà il primo premio al Festival di Cannes e l’Oscar per miglior film straniero. È l’inizio di un’amicizia e collaborazione che ha il suo primo, fondamentale frutto proprio in ‘Chega De Saudade”.

La parola bossa nel gergo brasiliano vuol definire qualcosa fatto con particolare charme, abilità innata, stile naturale. Negli anni 50 la si usa a Rio per definire qualcosa di trendy, lo scrittore Ruy Castro afferma che negli anni 50 era usata per descrivere la capacità di suonare o cantare in modo idiosincratico, stravagante.

Di fatto, è una derivazione della musica popolare principale del Brasile, il samba, che origina come ritmo e feeling nelle comunità degli schiavi africani: è una semplificazione del ritmo tipico delle scuole di samba, «come se tutti gli strumenti fossero rimossi e rimanesse solo il tamburino». Un andamento sincopato diverso dal samba tradizionale quindi, il beat sul secondo quarto, le tre dita sulla chitarra classica a sintetizzare il samba replicando proprio il tamburino, col pollice a replicare il tamburo basso, detto surdo. 

Nel sontuoso libretto del cd, Gene Lees (critico jazz, oltrechè paroliere e cantante), che con Jobim, che all’inizio parlava solo poche parole di inglese, instaurerà una partnership autorale e di grande amicizia, gli dice che la bossa nova gli ricordava un poco Gerry Mulligan, e Jobim spiega l’influenza del sassofonista americano: «Il samba di strada è qualcosa di caldo e passionale, io volevo calmarlo un po’, come gli ensemble di Mulligan, ma senza perdere lo swing. Il samba è una cosa afro-europea. Le radici sono simili a quelle del jazz. La canzone portoghese ha il beat e il feeling nero. La samba è il nostro albero della musica, puoi considerare la bossa nova un ramo, uno dei tanti. La samba di strada, quella del Carnevale, ha tanti strumenti percussivi, e barattoli e tamburi e tamburini, di tutto. La bossa nova aveva questo vantaggio: era più concisa, meno rumorosa, succedono meno cose, più facile da registrare in uno studio. Ho fatto una esperienza notevole con Orfeu Negro, venti percussionisti in sala, suonava come il mare. I buchi tutti pieni, non rimane spazio. La bossa è arrivata con un beat molto distaccato, che ha ripulito tutto. Era più facile, e forse per questo è diventata più universale».

Il primo album in cui esordisce la bossa nova, traducibile in fondo come new wave, è quello di Elizeth Cardoso, “Cancao de Amor Demais”, 1958, che contiene quelle due composizioni di De Moraes e Jobim, ‘Chega de Saudade’ e ‘Outra Vez’: alla chitarra classica c’è un giovane musicista molto innovativo, Joao Gilberto, che le suona accentuando i tempi intermedi in quello stile ondeggiante che diventerà onnipervasivo: «La bossa nova si muove di lato, il jazz va avanti e indietro», è la definizione di Carlos Lyra.

Quando l’anno successivo Joao riprende ‘Chega de Saudade’ e ‘Desafinado’ (già pubblicate a 45 giri) per il suo album “Chega De Saudade”, traducibile con un ‘basta con questa tristezza’ (anche se saudade vuol dire di più, un misto di nostalgia di casa e di malinconia esistenziale), la bossa nova è ufficialmente portata alla ribalta.

Gilberto definisce anche lo stile vocale, lontano dal tono operistico antecedente, più vicino al folklore dei suoi anni giovanili passati nel Nord-Est a Bahia, vicini a quelli di un altro grande della musica brasiliana, Doryval Caymmi. È un tono morbido, soffuso, quasi confidenziale, facilitato dalle nuove tecniche di registrazione e amplificazione che non richiedono approcci stentorei. Diventerà uno stile classico, a cui si uniformerà anche Jobim, appena registrerà in proprio. 

Quando nel 1962 Stan Getz e il chitarrista Charlie Byrd pubblicano l’album “Jazz Samba” e hanno un secondo hit americano con ‘Desafinado’, il mondo del jazz drizza le antenne: Thelonius Monk dice che «La bossa nova ha dato agli intellettuali newyorkesi quello che gli mancava: ritmo, swing e calore latino». Per Gerry Mulligan «La bossa nova è armonicamente perfetta e altamente sofisticata».

Non c’è da sorprendersi, nelle influenze di Jobim ci sono anche i jazzisti della West Coast, un jazz più cool rispetto al hard bop dell’altra costa: i sassofonisti Mulligan, Stan Getz, Bud Shank; il trombettista Chet Baker, soprattutto nella sua maniera dolce, sussurrata di cantare; e il chitarrista Barney Kessel, soprattutto per i suoi arrangiamenti dell’album “Julie Is Her Name”, 1955, della cantante Julie London, in particolare ‘Cry Me A River’ (un hit formato r’n’b per Joe Cocker vent’anni dopo).

C’è una coolness e una complessità armonica comune, evidenziata dal fatto che quando esce il suo album, la comunità jazz americana accoglie questo nuovo ritmo esotico come un trend dal quale non ci si può esimere. Basta con i classici di Tin Pan Alley, finalmente un repertorio nuovo ed eccitante sul quale lavorare e reinterpretare. Ma la bossa nova va oltre la comunità jazz, diventa una moda, una follìa globale, entra anche nelle classifiche e nei gusti pop, valga per tutti ’Bossa Nova Baby’ di Elvis. È giunto il momento di sentire gli originali.

È un diplomatico dell’Ambasciata brasiliana che fa partire l’iniziativa, un concerto dove raggruppare i migliori artisti. La Carnegie Hall il 22 novembre li ospita, e ci sono davvero tutti: Joao Gilberto e Luis Bonfà, Bola Sete e Carlos Lyra, anche l’argentino Lalo Shifrin, Sergio Mendes e anche Jobim, terrorizzato dal viaggio aereo e arrivato all’ultimo istante. Ma il concerto è un fiasco, audio terribile e performance mal recepite, un trauma per i molti partecipanti, che rimangono disorientati, naif come sono.

Mulligan e Lees lo proteggono dagli ‘avvoltoi dell’industria e dell’editoria e della stampa’, tanto che Jobim gli confida: «In Brasile ho conosciuto gli apprendisti stregoni, a New York ho incontrato lo stregone». Imbevuti di saudade e punti dal freddo, ritornano quasi tutti a casa. Mendes tiene duro, non è neanche un bossista, piuttosto un pianista jazz alla Bud Powell, che ha deciso che è qui dove vuol continuare a lavorare e farsi un nome, e anche Jobim: «Stavo per tornare anch’io, ma poi ho pensato che ero in mezzo a tutti i musicisti che avevo ascoltato fin da bambino. Stan Getz voleva fare un album. Son tornati tutti, Joao Gilberto ed io siamo rimasti».

L’etichetta Verve affida la produzione a Creed Taylor, e nel marzo del ’63 Getz e Gilberto, accompagnato dalla moglie Astrud, entrano in studio per “Getz/Gilberto” che lancerà la bossa nova e i coniugi Gilberto nell’empireo del jazz mondiale. Il sax di Getz avvolge quel ritmo soave in maniera calda, sensuale, Joao canta con un’intimità che sembra stia lì a pochi centimetri, e il tocco in più lo aggiunge Astrud, a cui viene inaspettatamente affidata la parte vocale -visto che sa cantare in inglese, con quel tocco di fascinosa cadenza brasiliana- della ‘Garota De Ipanema’, testo adattato di Norman Gimbel che accorcia un po’ le note e non ne traduce fino in fondo la poesia di Vinicius, ma non si può pretender tutto.

In portoghese suona così:
Olha que coisa mais linda mais cheia de graça
É ela menina que vem que passa…
Guarda che cosa bella piena di grazia
È lei la ragazza che viene che passa
Su un dolce sentiero ondeggiando verso il mare
Ragazza con il corpo dorato dal sole di Ipanema
Il suo ‘balancado’, ondeggiare, vale più di una poesia
È la cosa più bella che abbia mai visto passare”

‘Garota de Ipanema’ per certi versi ha per lui lo stesso valore identificativo del cognome Jobim per il prozio, è lì che Antonio Carlos vive, in Rua Barao de Torre, nel quartiere costruito sulla striscia di terra dietro alla spiaggia. In origine dovrebbe far parte di un’altra opera teatrale di Vinicius, Dirigivel, Astronave, su un marziano che discende su Rio, un po’ come il Marziano A Roma di Ennio Flaiano (chissà se era lo stesso in tour terrestre), e si chiama ‘Menina Que Passa’, la ragazza che passa.

La ispira una ragazza di 17 anni dal nome infinito (come sempre in Brasile) quanto la sua bellezza: Heloisa Eneida Menezes Paes Pinto, o più semplicemete Helô Pinheir, che su quel nickname negli anni costruirà una carriera di modella e imprenditrice. È lei che ogni giorno passeggia sul lungomare fino al bar Veloso, andando a volte a prendere le sigarette per la madre e i fischi e complimenti dei presenti (non erano molestie, nel ’62 a Ipanema). Tom e Vinicius un giorno d’inverno la osservano e scrivono, un testo che è una pennellata di sole e una melodia di una mordidezza seduttiva, tanto quanto i capelli e la pelle dorata della garota.

La seconda strofa è come l’altro lato del vinile, malinconico e triste:
“Oh perché son così solo?
Oh perché è tutto così triste?
Ah, la bellezza che esiste
La bellezza che non è solo mia
Anche lei passa da sola
Oh se solo lo sapesse
Che quando lei passa
Il mondo sorride si riempie di grazia
E diventa più bello grazie all’amore…”

De Moraes, in ‘Revelação: A Verdadeira Garôta de Ipanema’, scriverà che «era il paradigma della giovane carioca: una teenager dorata, un misto di fiore e sirena, piena di luce e di grazia, la cui vista è però anche triste, nel senso che porta con sé, camminando verso il mare, la sensazione di una gioventù che sfuma, di una bellezza che non è nostra: è un dono della vita nel suo meraviglioso e melanconico flusso e riflusso».

La combinazione marito e moglie, portoghese/inglese, apre alla bossa nova il mondo. Non si è mai sentito nulla di più romantico, intimo, melodico, disincantato e sexy insieme. “Getz/Gilberto”, tutti brani di Jobim tranne uno di Ary Barroso, vince quattro Grammy, più quello di Disco dell’Anno, prima volta per un album jazz. Presto avrà due fratellini, un #2 e un #3, formula che vince non si cambia. La ragazza di Ipanema nel tempo è diventata, seconda solo a ‘Yesterday’, la canzone con più cover al mondo, 240. Nel frattempo, Jobim è diventato un nome sulla bocca di tutti. Un anno prima non era nessuno, due o tre anni prima non lo era neanche nel suo Brasile, e ora è una star. 

Merita il debutto in proprio, e nel maggio del ’63 reincide i suoi brani, arrangiati da Claus Ogerman, noto arrangiatore di successo un po’ ‘un tanto al chilo’ ma che per lui riserverà sempre il meglio di sé, ed è tanto. Il repertorio del suo primo album, “Antonio Carlos Jobim: the Composer of Desafinado, Plays”, interamente strumentale, rimane qualcosa di sensazionale: ‘The Girl From Ipanema’, ‘Agua De Beber’, ‘Insensatez’, ‘Corcovado’, ‘Samba De Uma Nota So’, ‘Meditacao’, ‘Chega De Saudade’, ‘Desafinado’ e altre ancora. Il libro mastro della bossa nova in 34 minuti. Ma sarebbe venuto molto altro, con un intento forse diverso da quello che tutti credono: in una sessione di scrittura con Gees, gli sottecchia con aria sorniona, «Li stiamo ingannando. Credono che stiamo scrivendo musica popolare».

I passi successivi, infatti, vanno in un’altra direzione. Quando Creed Taylor, colui che in qualche modo ha dato prestigio alla bossa nova e di conseguenza alla musica brasiliana intera, anche a quella futura, e ha evitato che diventasse una moda kitsch passeggera, si separa dalla Verve e crea prima il suo marchio, CTI, distribuito dalla A&M di Herb Alpert e poi si mette in proprio, Jobim lo segue. Esce il trittico “Wave”, “Stone Flower”, “Tide”, sempre con le partiture di Ogerman, che sono meno pop e più orchestrali: sempre piacevoli, orecchiabili, ma più complessi.

I primi due in particolare sono eccellenti (Santana riprenderà ‘Stone Flower’ su Caravanserai), non fra le cose più straconosciute di Jobim e per questo una sorpresa, nella loro orchestrazione così sapiente, così ricca di musicalità, in primo piano gli archi e quel flauto che è così presente in tanti suoi brani, soave come una nuvola che passa nel cielo. Occupano buona parte del cd2, che si chiude con una deliziosa bossa veloce e scherzosa, tratta da “Wave”, showcase per i suoi amici jazzisti Jimmy Cleveland e Urbie Green alla tuba e Ron Carter al contrabbasso, ‘Capitan Batista’. 

 

Creed Taylor li ricorda così: «Sono state esperienze così piacevoli. Non tenevo appunti, non facevo foto, pensavo che quei giorni dorati sarebbero durati per sempre. Ero andato a Rio verso il ’64, sull’aereo c’erano tanti personaggi famosi. Tutti che volevano capire cos’era la bossa nova, tutti che chiedevano ‘ma c’è davvero una ragazza di Ipanema?’. Siamo andati in quel baretto dove lui e Vinicius hanno scritto la canzone, e la stessa ragazza camminava ogni giorno verso la spiaggia. A casa di Jobim la prima cosa che ha fatto è stato sedersi al pianoforte e suonare una versione quasi completa di ‘Wave’, con tutto il suo gesticolare e il suo entusiasmo infantile. Siamo andati a parties che finivano al sorgere del sole, e poi a una sauna a Costa Brava, nella piscina -non riesco ancora a crederci- c’erano Jobim, Astrud, Deodato, Milton Nascimento, Elis Regina, Marcos Valle. Tutti così disponibili e amichevoli ed entusiasti al tempo stesso». 

Prima però c’è un passaggio che consacrerà definitivamente il suo status. Un giorno, mentre sta sorseggiando una birra nel suo solito bar di Ipanema, arriva una telefonata. È Frank Sinatra che lo invita a fare un album insieme, tutto delle sue canzoni: “Pensi che sia una buona idea?”. “Perfetta”. “Sinatra/Jobim”, con anche tre standard americani rifatti a bossa, inciso con Jobim su uno sgabello con la sua chitarra, la superstar dagli occhi blu vicino all’orchestra rigorosamente senza cuffie, perfezionista e professionale e carismatico come nessuno, avrà successo ma non clamoroso. Arriverà però secondo al Grammy come Album dell’Anno: per il primo posto, nell’estate del ‘67 arriverà “Sgt. Pepper’s” dei Beatles, noblesse oblige anche per Frank.

Nel marzo del 1972 Jobim scrive la musica e il testo, sia in portoghese che in inglese, del suo capolavoro, votata la migliore canzone brasiliana di sempre, “Aguas de Março’, ispirata dalle piogge torrenziali di marzo, che diventano ruscelli che dalle colline sopra Rio allagano e portano a valle cose di tutti i generi. La scrive nella piccola fattoria di famiglia a Poço Fundo, nello stato di Rio de Janeiro: la proprietà è oggetto di lavori di ristrutturazione, che consistono essenzialmente nel rafforzamento di un muro.

Piove molto, e la stradina che conduce alla fattoria è coperta di fango. In questo ambiente di lavori manuali, fango e pioggia, Tom scrive (in uno stream of consciousness che, dirà, gli ha fatto risparmiare migliaia di dollari di analista) i versi di una canzone meravigliosa nella sua leggerezza poetica, toccante nel suo cogliere i tanti piccoli aspetti -dentro e fuor di metafora- che rappresentano la vita brasiliana e il continuo ripetersi dei cicli della natura.

Esce prima così, come fosse una cosetta, disco in omaggio con la rivista locale O Pasquim, e poi viene incisa da Elis Regina, Joao Gilberto, Mina in italiano, e da lui stesso nell’album “Jobim”. Nel ’74, sull’album “Elis & Tom” esce quella che è la versione definitiva, un duetto con Elis Regina (di nome e di fatto della MPB) il cui video è una delizia che spiega molto dell’umore, del feeling della canzone e della complicità fra di loro.

La traduzione è dal sito musicaememoria.com:
“È legno, è pietra, è la fine della strada
È un resto di tronco, é un pochino solo 
È un pezzo di vetro, è la vita, è il sole
È la notte, è la morte, è un laccio, è l’amo 
È un albero in un campo, è il nodo del legno,
È la candela degli indios, è il folletto Matita-Pereira 

È un flauto, è un tuffo dalla sponda del fiume
È il profondo mistero, è il volere o non volere 
È il vento che soffia, è la fine della discesa,
È la trave, è il vuoto, è la festa a tetto terminato
È la pioggia che cade, è l’incontro con il ruscello
Delle piogge di marzo, è la fine della fatica

L’elenco continua, lunghissimo, sempre preceduto da quel “è”, terminando con la considerazione che lo scorrere delle cose e la fine dell’estate (le stagioni sono invertite rispetto alle nostre nell’emisfero australe) non significhi la fine del periodo migliore, ma solo una ripartenza di vita e di speranza:

È un serpente, è un bastone, é João, é José,
È un taglio nella mano, è una ferita nel piede 
Sono le piogge di marzo che chiudono l’estate,
É la promessa di vita nel tuo cuore”.

Passano 15 anni, nel 1987 Jobim ne compie 60, e dopo un silenzio di sette anni -interrotto solo dalla colonna sonora del film Gabriela, il tema d’amore affidato a Gal Costa- pubblica “Espirim”, che segue nello spirito gli album precedenti, dedicati al tema dell’ecologia, della preservazione del patrimonio naturale brasiliano. Si è sposato una seconda volta mentre il primo figlio stava per renderlo nonno, e ne avrà altri due con Ana Beatriz Lontra, fotografa. Ha accolto figli e amici in una grande band, A Banda Nova, che è diventata il suo mondo in tour e in studio. 

Vive una vita felice, ancora con qualche ombra amara nel suo rapporto con la critica e la percezione che abbia venduto l’anima agli americani: «Noi brasiliani abbiamo questa mania della miseria. Il Brasile non accetta nulla che funzioni. Ama Garrincha ma deve imparare ad amare Pelè. Lui ha avuto successo e Garrincha è morto povero. Non sono io che parlo male del Brasile, ma il Brasile stesso. Più la mia musica era brasiliana, più mi chiamavano americanizzato. Ho dedicato la mia vita alla musica brasiliana, perché hai già i francesi a scrivere la musica della Francia e gli americani a scrivere musica americana. Gli elogi vengono dalla gente, le cattiverie dall’intellighentia. Come Villa-Lobos, se non se fosse andato via si sarebbe sparato o non sarebbe mai riuscito a esprimere la sua grandezza di compositore. Se fossi rimasto in Brasile, non sarei andato oltre il bar all’angolo, sarei ancora lì a bermi una birra».

Ma poi gli viene fatto, e si fa, uno splendido regalo per il compleanno. La Odebrecht gli chiede di incidere un album da dare in edizione limitata a scuole, librerie e clienti dell’azienda, ovviamente nella più totale libertà artistica, senza pressioni commerciali. “Inedito”, sconosciuto, è il titolo, come a rivelare il lato più personale del grande maestro. Che teneva molto alla sua privacy, ma in maniera curiosamente contraddittoria: per dire, il ristorante dove era solito pranzare aveva sempre il tavolo riservato solo per lui, ma era di fianco all’ingresso, così che chiunque entrando finisse per vederlo, e magari scambiare un saluto o una chiacchera. Ora su quel tavolo c’è una targa a ricordarlo.

Jobim attrezza a studio la sua casa nel quartiere del Giardino Botanico, poche centinaia di metri dalla vecchia Rua de Barato, di notte, quando i rumori della città si placano. Incide 24 canzoni, alcune sue, classici inclusi, molte di De Moraes, una di Villa-Lobos, intinte di saudade ed eclettiche come a ricordare a quante radici aveva attinto nel suo percorso. 

Un anno dopo la sua morte nel 1994, la famiglia chiederà di rendere l’album disponibile a tutti, e la critica ne parlerà come una gemma definitiva, forse l’album della vita, migliore anche di “Jobim Brasileiro”, altro ottimo album uscito di poco postumo, anch’esso incensato, questo sì intinto di saudade per il maestro che non sarebbe più tornato.

Mark Hudson ha scritto di questo testamento in musica: «Offre la percezione di tutte le influenze di Jobim: il West Coast Jazz, il modernismo europeo, Debussy, il brasiliano Pixinguinha. Il pianto delle sirene delle voci femminili ricorda l’esaltazione dei canti religiosi africani, della liturgia cattolica e di tutte le trame che hanno creato la musica brasiliana. E anche un elemento leggero di kitsch, perché per tutta la sofisticatezza della sua visione musicale, Jobim è un compositore popolare, che non ha mai perso di vista l’origine di questa musica nei bar e nelle feste sulle spiagge di Rio. Come il suo contemporaneo Bacharach ha fatto cose straordinarie con la melodia, senza dimenticare mai l’uomo della strada».

Eclettico e prolifico come nessuno all’interno di un genere che ha praticamente creato, amato dalla gente di strada come dai jazzisti più sofisticati della sua era, come anche da artisti pop (George Michael gli ha dedicato l’album “Older”), l’architetto mancato Jobim è stato una figura monumentale non solo della musica brasiliana, ma della musica del 20° secolo. 

Un giorno, atterrate in quell’Aeroporto Internacional Tom Jobim, e prendete in affitto una stanza su Rua de Barato, a cento metri da Ipanema. Io l’ho fatto, e l’unica cosa che rimpiango è di aver staccato il biglietto 20, 30 o 40 anni troppo tardi.

 

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