Non si parte dai problemi. È questa una delle caratteristiche del community organizing: un metodo per dar forma e rafforzare coalizioni civiche, elaborato dal sociologo e attivista statunitense Saul Alinsky negli anni Quaranta del Ventesimo secolo, che sta prendendo sempre più piede anche in Europa.
«Il potere viene prima dei problemi», rimarcava d’altronde Barack Obama, in un suo scritto del 1988 diventato celebre, titolato “Why Organize? Problems and promise in the inner city”. Proprio Obama, che prima di diventare il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti ha lavorato come community organizer, spiegava che l’organizing muove dalla premessa che “i problemi che devono affrontare le comunità non sono una conseguenza della mancanza di soluzioni efficaci. Sono una conseguenza della mancanza di potere per implementare queste soluzioni”.
Heather Booth, fondatrice della Midwest Academy e tra le più note community organizer al mondo, ha coniato una formula: le tre “o”: «OOO = Organizers Organize Organizations». Prima “o”: organizzatori. Seconda “o”: organizzare. Terza “o”: organizzazioni. Quello del community organizing è dunque un processo che porta degli «organizzatori a organizzare organizzazioni».
Il metodo del community organizing si basa su tre linee guida:
- ascoltare la comunità;
- definire l’aspirazione minima di quella comunità;
- creare i presupposti, interni e esterni, per soddisfare le aspettative di quella comunità.
Con una metafora, si può paragonare l’organizzatore a un meccanico che lavora sul motore della macchina. La comunità è la macchina, ma le persone sono il motore. Lo scopo è mettere in moto quella macchina, rendendola “competitiva” e capace di farsi rispettare.
Il community organizer è un attore primario del cambiamento della politica sociale in relazione a gruppi specifici. Il suo lavoro richiede precise competenze in termini di comunicazione, capacità di muovere all’azione, leadership e organizzazione. Oggi ci sono scuole, corsi e percorsi di formazione per prepararsi a questa che è una vera e propria professione.
Negli Stati Uniti, un community organizer operativo guadagna in media 43mila dollari l’anno. Con una crescita costante della retribuzione e una possibilità di scalata, non solo nel mondo non profit, ma anche in quello profit e istituzionale
Il lavoro del community organizer si svolge lungo quattro linee di strategie: organizzazione della comunità, difesa, advocacy e capacità di offrire servizi. In particolare, osserva Alberto Alemanno, avvocato, esperto di tematiche civili e autore del recente “The Good lobby ”(Edizioni Tlon, 2021), l’advocacy e il lobbying civico stanno assumendo un ruolo sempre più importante nel community organizing.
Il lobbying civico, spiega Alemanno, «contribuisce a mobilitare cittadini e organizzazioni, che troppo spesso si sentono impotenti e sfiduciati, coinvolgendoli nei processi decisionali e creando un legame nuovo tra società civile, istituzioni e imprese».
Proprio le imprese si stanno sempre più accorgendo dell’importanza del dialogo costruttivo con le comunità. Per questo puntano sui community organizer non solo per mitigare conflitti, ma per implementare processi di cooperazione e condivisione.
Soprattutto dopo la pandemia, che ha visto riemergere con forza il tema della comunità, quella del community organizer è una professione richiesta: nella logistica, nell’home sharing e in tutte quelle pratiche che impattano su un territorio. Se ne sono accorte, per prime, le piattaforme, che puntano forte su questa figura facendone un perno tra gli host locali, la comunità e l’azienda stessa. Come? Con il metodo del community organizing, appunto: ispirando, promuovendo, facendo sentire la voce della comunità e studiando strategie per far ricadere valore sulla comunità generando impatto ed economia inclusiva.