Il leader empiricoIl “draghismo” ci sta salvando dal bipopulismo. Ma bisogna calarlo nella politica-politica

Il premier non ha la pazienza lenta e avvolgente di Moro, né la mefistofelica abilità di Andreotti, né la grinta di Craxi, né la bulimia politico-imprenditoriale di Berlusconi e neppure il talento politicista di D’Alema o Renzi. Ma sta realizzando una cosa inedita: sta rispettando gli impegni. Da Linkiesta Magazine in edicola, in libreria o su Linkiesta Store

Fabio Frustaci/POOL ANSA/LAPRESSE

Sul ruolo della personalità nella Storia si sono scritti migliaia di volumi. Persino i marxisti, che vedono il primato nelle masse, ammisero che nelle ferree leggi che muovono il mondo a un certo punto interviene qualcuno che cambia la Storia.

Il maestro di Lenin, Georgij Plechanov, scrisse appunto un saggio per sostenere che nella vicenda umana non ci sono solo le classi e i meccanismi economici che ne regolano i rapporti. E, pochi anni dopo, i fatti gli diedero ragione: infatti senza Lenin la Rivoluzione russa non ci sarebbe stata. Ma, per venire a noi, osserviamo che nella storia repubblicana d’Italia, malgrado un florilegio di personalità molto forti, mai era accaduto che un sol uomo, senza partito, senza giornali, senza televisioni, senza altro che la sua competenza, fosse capace di avviare una stagione politica completamente diversa.

Mario Draghi, chiamato da Sergio Mattarella a guidare il governo italiano dopo il doppio naufragio dei due esecutivi guidati da Giuseppe Conte, ha trasformato la più grande sciagura sanitaria dei tempi moderni in un’occasione per porre le basi di una inedita modernizzazione di un Paese forte ma arretrato su troppi terreni fondamentali. Occasione, beninteso, ancora tutta da cogliere: ma è senso comune ormai associare la nuova Italia al nome del presidente del Consiglio.

Il quale, va notato anche questo, sta realizzando una cosa che probabilmente non aveva mai fatto nessuno governante: ha rispettato gli impegni. Che erano sostanzialmente due. Prima di tutto, dare un colpo decisivo al Covid mediante un’azione radicalmente diversa da quella, piuttosto inane, del governo Conte, una vera e propria guerra di movimento che è stata condotta sul campo, nel senso letterale del termine, dal generale Francesco Paolo Figliuolo coadiuvato dalla Protezione civile diretta da Fabrizio Curcio; e, secondo impegno, la presentazione del Piano di resistenza e resilienza consegnato Il 30 aprile a Bruxelles, un Piano cinque volte più dettagliato e incisivo di quello ereditato dal precedente governo (per l’esattezza, 2.480 pagine contro 500): la base per una serie impressionante di provvedimenti successivi che dovranno identificare la nuova stagione italiana.

Questi i fatti, nella loro essenza. A questo punto bisogna anche chiedersi come sia possibile che in un Paese nel quale i partiti da settant’anni rappresentano l’alfa e l’omega della politica un uomo senza una formazione partitica alle spalle, praticamente da solo – non ha neppure un ufficio stampa – si mostri in grado di trasformare l’Italia. Cioè, chiariamo meglio: bisogna domandarsi come faccia a far “star buoni” partiti peraltro diversissimi tra di loro.

Non si tratta qui (solo) di capacità di mediazione. Mario Draghi non ha la pazienza colta, lenta e avvolgente di un Aldo Moro, meno che mai la mefistofelica abilità di un Giulio Andreotti o la famosa grinta di Bettino Craxi, per non parlare della bulimia politico-imprenditoriale di Silvio Berlusconi, e non ha neppure il talento politicista di Massimo D’Alema o di Matteo Renzi. Giusto Romano Prodi ha qualcosa di simile a lui: due economisti, europeisti, uomini delle istituzioni.

Ma Draghi è un leader naturale (a differenza di Mario Monti, Enrico Letta, per tacere di Conte) di tipo nuovo: non ha bisogno di andare in televisione per piacere alla casalinga di Voghera, non presenta libri, non fa comizi, non si vede nei salotti, non rilascia interviste. Più semplicemente, fa. Ascolta tutti e poi decide. Preferisce convincere che vincere. Ed è probabile che le dispute, le lotte, le dinamiche e gli sgambetti – fondamentali ingredienti delle ricette cucinate dai partiti – gli interessino davvero poco. Se la sbrighino loro. Con Draghi abbiamo dunque un leader sui generis, un intellettuale di stampo illuministico che infatti antepone il dato empirico-scientifico (nel suo caso, l’economia) alle malìe della politica come arte retorica a caccia del consenso.

Ed è proprio questa formazione empirica che gli consente di apparire e di essere un politico più concreto di tanti illustri predecessori, senza peraltro che ciò comporti alcuna indifferenza alla dimensione valoriale di una sincera vocazione repubblicana e progressista, come fu chiaro nel discorso del 25 aprile a via Tasso, al Museo storico della Resistenza, quando disse che «non fummo noi italiani tutta brava gente», troncando di netto con la retorica di un Paese comunque affratellato.

Tutto ciò detto, è inevitabile arrivare al punto politico. E il punto è quello del consenso e della forma politica del draghismo. Non vi sono molti dubbi che la figura e l’operato di Draghi riscuotano l’approvazione della maggioranza degli italiani, e, proprio per le caratteristiche del presidente del Consiglio che abbiamo cercato di descrivere, stiamo qui parlando di consenso e non di mera popolarità (era Francesco Cossiga a ricordare questa cruciale distinzione).

Tuttavia, qui sorge un problema. Infatti, se da un lato è certo che il draghismo è già adesso una linea politica, dall’altra viene da chiedersi quale “famiglia” possa incarnarla e darle gambe politiche, organizzative, elettorali. Ma qui si potrebbe parare una contraddizione in re ipsa: come potrebbe l’uomo dell’unità nazionale ridursi a capo di una parte politica senza perderci in termini di quella credibilità che gli deriva, appunto, dall’essere talmente forte da essere considerato un super partes? In realtà, saranno i contenuti delle riforme del governo che chiariranno ulteriormente quale sia il “campo” di Draghi, ed è probabile che egli sarà giocoforza costretto a scegliere da che parte stare e contro chi mettersi, seppure dentro un delicato gioco di equilibri.

Ma è evidente che la grande riforma del sistema organizzato che sta alla base del capitalismo italiano non potrà essere né neutra né in continuità col passato, e già lo si vede dal modo piuttosto spiccio con cui il premier gestisce le nomine delle aziende pubbliche: senza chiedere il permesso a nessuno. O dell’attivismo sul tema della tassazione delle grandi multinazionali. Ma è chiaro come il metodo-Draghi sia costantemente in rotta di collisione con gli appetiti dei partiti ed è dall’esito di questo match sotterraneo che dipenderanno molte cose.

E qui, però, veniamo al grande punto di forza dell’ex presidente della Bce, cioè la debolezza dei partiti e del sistema politico in quanto tale. È molto difficile che un partito faccia saltare Draghi. Se i tre principali partiti sono valutati intorno al 20 per cento vuol dire che in questa fase storica nessuna formazione, a meno di clamorosi rovesciamenti negli orientamenti della società, può ambire alla funzione di “partito della Nazione” (l’ultimo tentativo fu quello del Pd di Matteo Renzi finito come sappiamo) che sarebbe l’indispensabile premessa per chiudere con il “draghismo”. È vero dunque che Draghi ha commissariato la politica ma è ancor più vero che oggi è lui la politica. Per cui si assiste a un doppio film: i partiti che si agitano alla ricerca di strade nuove e il governo Draghi che fa l’agenda. Ma come fare a calare il draghismo nella politica-politica, cioè a farne una “teoria” specifica e un programma politico da sottoporre agli elettori?

Ecco l’interrogativo sul “partito di Draghi”, o forse meglio su una coalizione riformista e di un nuovo centrosinistra che incarni il messaggio illuminista del premier senza peraltro che sia obbligatorio che sia lui in prima persona a guidarla. Il “draghismo” come linea politica di una coalizione progressista del tutto depurata da estremismi e populismi come quelli inseguiti per anni dei grillini potrebbe essere il sorprendente esito di una non breve storia del centrosinistra sempre alla ricerca di se stesso e perciò marchiato da un perenne senso di provvisorietà.

È un passaggio delicatissimo che apre scenari di vario tipo e che dovrà fare i conti con la partita del Quirinale alla quale in diversi vorrebbero spingere il presidente del Consiglio. In ogni caso, diremmo che quella di Mario Draghi non sarà possibile considerarla una parentesi, un accidente imposto dall’emergenza, ma piuttosto come l’alba di una nuova fase della vicenda italiana.

Questo articolo di Mario Lavia è stato pubblicato sul nuovo numero di Linkiesta Magazine, in edicola a Milano e a Roma e nelle migliori librerie indipendenti d’Italia.
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