Disordine informativoTeoria e tecnica delle fake news in Italia

Il fenomeno della disinformazione è più complesso di quanto appare e ha le sue radici nella fragilità intrinseca dei media contemporanei. Ma, come spiegano Morlino e Sorice, il problema risiede anche nella prevalenza degli algoritmi delle piattaforme e nella scarsa capacità degli utenti di distinguere i contorni della realtà

di Visuals, da Unsplash

Buona parte degli studi sulle fake news poggiano sulle teorie riguardanti i meccanismi sociali e mediali che portano alla diffusione di fattoidi: questi ultimi sono fatti inventati ma presentati come reali, ripetuti e circolati in modo talmente diffuso da indurre le persone ad annoverarli nel loro patrimonio di conoscenze.

I fattoidi, in effetti, affondano le loro radici nella cultura popolare, nelle dicerie e nelle leggende metropolitane che, in epoca premediale, si diffondevano di bocca in bocca. Le fonti storiche hanno documentato come la “grande paura” nei confronti dei mercenari stranieri, diffusa in Francia agli albori della Rivoluzione, fosse sorta “dal nulla”, o come diremmo oggi “dal basso”, non come effetto di una volontà precisa di manipolazione (o almeno non direttamente identificabile), ma come diceria popolare completamente inventata.

Un esempio classico di fattoide riguarda l’episodio della lettura di “La Guerra dei Mondi” da parte di Orson Welles nel 1938, allora speaker radiofonico per un’emittente americana. L’enfasi posta da Welles sulla descrizione dell’invasione aliena, unita all’uso di una sigla che imitava la sigla del notiziario, scatenò il panico in una parte del pubblico: certamente la maggior parte degli ascoltatori fu in grado di capire che si trattava di un’ottima interpretazione attoriale, ma sulle prime pagine del giorno dopo apparvero i casi di persone che avevano creduto alla “notizia” dell’invasione. Questi episodi sono paradigmatici di come le logiche dei media si siano sedimentate nel corso del tempo, ed è utile per arrivare a smorzare il determinismo che spesso associa l’avvento dei social media alla crescita della manipolazione.

Attualmente la letteratura sul tema ha rubricato all’interno della categoria “fake news” diversi tipi di contenuti. Da una recente review, il concetto di fake news appare piuttosto lasco, dal momento che include anche satira, parodie, pubblicità e propaganda politica; tuttavia, è interessante passare in rassegna le specificità di queste forme, evidenziandone le differenze rispetto alla manipolazione vera e propria e alla fabbricazione di notizie false.

In particolare è possibile distinguere le forme in cui i contenuti fake circolano online in base a due criteri: 1) il grado di aderenza della notizia alla realtà dei fatti; 2) il grado di intenzionalità manipolatoria, da desumere rispetto alla esplicitezza (o trasparenza) dell’intento non informativo dei contenuti (basso grado di intenzionalità manipolatoria nel caso di satira, parodia, pubblicità; alto in tutti gli altri casi).

Malgrado alcuni limiti, questa panoramica ha il pregio di porre al centro dell’attenzione due questioni riguardanti le fake news. In primo luogo, il grado di aderenza ai fatti è certamente un criterio importante di distinzione tra fake news e anche tra queste e notizie vere; ma ancora più importante è l’accento posto sulla verosimiglianza delle fake news che si basano sulla fabbricazione per giustapposizione e sulla manipolazione di materiali originali decontestualizzati. Questi due tipi di fake news, infatti, sono maggiormente inclini a sfruttare l’effetto di realtà, cioè il meccanismo secondo cui il pubblico ritiene credibili alcuni contenuti sulla base di segni identificativi (come i loghi istituzionali, le modalità con cui viene girato un video, la testata di un sito web) e sulla base di dati di contesto. Tra i segni identificativi, la strategia si basa sull’imitazione di elementi grafici e testuali realmente utilizzati dalla maggioranza delle fonti informative reali e sulla giustapposizione di elementi falsi o decontestualizzati ma verosimili. Quanto ai dati di contesto, la verosimiglianza è data dall’amplificazione del messaggio fake.

Spesso tale amplificazione segue una strategia di cui beneficiano partiti, gruppi, movimenti e leader politici; il fenomeno è ormai talmente connaturato alle dinamiche di comunicazione politica che le stesse espressioni “fake news” e “bufale” sono utilizzate in qualità di insulti per screditare gli avversari politici, o per rispondere alle critiche stigmatizzandole come propaganda partigiana piuttosto che affrontarle nel merito. In chiave strumentale all’acquisizione del consenso, per esempio durante una campagna elettorale, l’amplificazione delle fake news si basa sulla moltiplicazione dei siti costruiti con segni identificativi analoghi (la letteratura parla a questo proposito di siti-bufala, hoax sites, e di blog iperpartigiani) che imitano le modalità tipiche della circolazione di notizie in ambienti mediali e informativi: infatti normalmente, a parte qualche eccezione, i media uniformano le proprie agende in un gioco di consonanza, quindi il fatto che una notizia (falsa) sia riportata da più fonti le attribuisce maggiore credibilità agli occhi del pubblico.

Inoltre, la costruzione di un contesto parainformativo tipico sfrutta gli algoritmi del web e le logiche di popolarità per assicurare la distribuzione virale dei contenuti falsi sui social network. Se da una parte ciò rappresenta un nodo problematico, perché rende sfuggente la distinzione e quindi il tracciamento delle notizie false, d’altra parte la similarità dei meccanismi di diffusione tra notizie accertate e notizie false fa sì che il fenomeno della disinformazione rimanga piuttosto contenuto.

Per esempio, su Twitter le campagne di disinformazione che si servono della diffusione di fake news, non mostrano tassi di rapidità e ampiezza diversi dalle modalità tipiche delle notizie. In Italia e Francia, nel 2017 i siti di news falsi (hoax sites) non hanno superato una portata del 3,5% medio mensile rispetto al totale di utenti online, considerando che Le Figaro ha una portata media mensile del 22,3% e Repubblica del 50,9%.

Durante la campagna elettorale statunitense del 2016 solo il 10,1% del traffico sui più grandi siti d’informazione statunitensi veniva dai social media, mentre la percentuale saliva al 41,8% del traffico sui siti di fake news (Allcott e Gentzkow, 2017). La stessa indagine mostrava che la semplice esposizione alle fake news non era condizione sufficiente a determinare un cambiamento d’opinione: i confirmation bias risultano convincenti solo quando si è esposti a notizie che riportano fatti già conosciuti o che confermano la propria opinione, mentre si diffida di notizie che mettono in discussione tale opinione.

Nel caso della campagna elettorale per il Parlamento europeo del 2019, i siti che hanno diffuso notizie false hanno proliferato sui social media, ma la circolazione dei contenuti falsi da essi proposti è rimasta limitata a “sfere periferiche”.

Infine, durante la pandemia di Covid-19, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCom) ha monitorato con molta attenzione l’andamento della disinformazione, rilevando che nel suo momento di maggiore diffusione (17-23 febbraio), la disinformazione relativa al Coronavirus ammontava al 6,8% del totale di notizie online pubblicate sul tema (AGCom, 2020). Questo dato induce a ipotizzare che non appena il tema è diventato mainstream e parte dell’agenda dei media e del governo, la disinformazione ha perso in parte la sua capacità attrattiva.

Allo stesso tempo, il consumo di informazione e di disinformazione sono cresciuti in parallelo e se si prende come indicatore di diffusione della disinformazione il numero di visualizzazioni, i video su YouTube in cui il Coronavirus è indicato come punizione divina hanno raggiunto la quota di 8,4 milioni (ibid.).

A volte le fake news, così come le notizie accreditate, subiscono un processo di amplificazione per un effetto fisiologico della combinazione tra architettura di rete e modalità produttive del newsmaking. La logica dei media di informazione privilegia l’aggiornamento in real time (per timore di “bucare” le notizie) rispetto all’accuratezza e all’approfondimento; questo è anche frutto di una crescente precarizzazione dei lavoratori del sistema dell’informazione, che sottostanno a logiche di produttività ed efficienza che non sempre si conciliano con i tempi richiesti dalle verifiche dei fatti (Sorice, 2020). A ciò si aggiunge anche il passaggio della riproduzione e della condivisione sui social media, che si rivela particolarmente delicato perché potenzialmente legato a distorsioni e manipolazioni che alimentano i disordini informativi.

Questo tipo di lettura individua una fragilità intrinseca al sistema dell’informazione contemporaneo. Si è spesso osservato, a questo proposito, che i media appaiono vulnerabili a causa di tre fattori concomitanti (Marwick e Lewis, 2017):
1) Mancanza di fiducia nei media, perché laddove la fiducia nei media è più bassa, maggiore è il pericolo che la disinformazione trovi terreno fertile. Una ricerca svolta dal Reuters Institute for the Study of Journalism indica che nei Paesi dove meno della metà della popolazione ritiene i media degni di fiducia, le persone tendono a chiudersi all’interno di steccati informativi e ideologici che, a loro volta, predispongono alla circolazione di disinformazione (Nielsen e Graves, 2017);
2) Declino dei news media locali, dovuto a logiche di mercato (concorrenza, concentrazione e oligopolio), considerando che la prossimità dei reporter ai luoghi dove i fatti accadono dovrebbe teoricamente favorire una maggiore accuratezza;
3) L’economia dell’attenzione, che induce i media informativi a ricorrere a strategie clickbaiting per indurre il pubblico a cliccare sui propri siti web e far crescere le revenues pubblicitarie, soprattutto in contesti in cui è assente il finanziamento pubblico dell’editoria. Correggere questo aspetto non è affatto semplice perché richiederebbe un intervento statale sul mercato.

C’è un ultimo aspetto da sottolineare quando si parla di disordini informativi. Se si vuole ipotizzare un paragone con i disturbi del comportamento alimentare, i disordini informativi riguardano sicuramente problemi relativi all’offerta di contenuti “spazzatura”, un’industria che premia un certo tipo di messaggi semplificati, omologati e ripetuti, la timidezza di politiche di nudging che non riescono a determinare un sostanziale riequilibrio.

Ma più di tutto, i disordini informativi riguardano i comportamenti delle persone che non seguono una corretta dieta mediale, nel senso che non vogliono o non riescono a distinguere tra fonti affidabili e inaffidabili, tra contenuti certificati e contenuti basati su teorie prive di fondamento.

Esiste infatti un problema legato alla disuguaglianza non solo nell’accesso e nella perizia di uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ma anche nella comprensione e nell’effettivo utilizzo di tali tecnologie per l’accrescimento delle conoscenze e per l’esercizio di una cittadinanza democratica. La disuguaglianza digitale (o anche divario digitale di terzo livello; Ragnedda, 2018; van Dijk, 2020) non è solo una questione tecnologica ma descrive una condizione di svantaggio in cui la maggioranza dei cittadini è privata della capacità di orientarsi e acquisire le informazioni necessarie per agire, discutere, partecipare. Diventa allora indispensabile una riflessione sulla critical media literacy, che possa accompagnare le iniziative dei consorzi dedicati al factchecking (spesso composti da alleanze transnazionali tra organi di informazione e organizzazioni della società civile) e l’impegno delle istituzioni per avere una voce più chiaramente identificabile nel flusso di informazioni che quotidianamente investe il cittadino.

Le politiche di contrasto ai disordini informativi possono adottare una prospettiva regolatoria più o meno severa nei confronti delle piattaforme e dei media, così come nei confronti dei partiti politici, ma ci potrà sempre essere qualcosa che sfugge al controllo, soprattutto in un mondo che è costantemente messo alla prova del continuo progresso tecnologico. Ecco perché è importante rafforzare gli anticorpi.

da “L’illusione della scelta. Come si manipola l’opinione pubblica in Italia”, a cura di Leonardo Morlino e Michele Sorice, Luiss University Press, pagine 470, euro 26