Aperto ai gruppi cristiani, alle congregazioni, alle chiese diffuse più o meno in tutto il mondo. Ma sono benvenuti anche i credenti islamici, gli ebrei, i buddisti. Facebook non ne fa più mistero: da tempo vuole diventare il social di riferimento per i culti di tutto il mondo. Un progetto che, a quanto spiega questo interessante articolo del New York Times, la società di Mark Zuckerberg stava costruendo da tempo. Ma che – come molte altre cose – ha subito una brusca accelerazione con la pandemia.
Tra le partnership note c’è quella con la Chiesa presbiteriana americana, invitata dal social a dicembre 2020. Ma anche la Chiesa di Dio in Cristo, che è diffusa soprattutto in Africa (conta circa sei milioni di seguaci in tutto il mondo), ha da poco ottenuto l’accesso ad alcuni servizi specifici del social, relativi alla monetizzazione(e all’incanalamento delle offerte. I gruppi delle Assemblee di Dio, una organizzazione pentecostale con 69 milioni di membri sono stati tra i primi a utilizzare il livestream sul social, mentre la chiesa australiana di Hillsong, per la sua apertura ad Atlanta, si è rivolta al social network per ricevere informazioni e consulenza. Al momento dell’inaugurazione la sua partnership con la piattaforma era scritta in modo visibile ovunque.
Il senso di Zuckerberg per il divino risale almeno al 2017, quando è stata creata la divisione per le funzioni religiose. Fin dal principio si sono mossi corteggiando i vertici delle chiese evangeliche e pentecostali. Il progetto era di fornire uno set di strumenti informatici per la diffusione online di prediche e preghiere e soprattutto per la raccolta delle offerte. Il guadagno delle chiese era ovvio: mantenere i contatti, in modo più stretto, con tutti i fedeli sparsi nel mondo. Per il social network gli accordi garantiscono l’accesso a una serie di dati molto preziosa, che riguarda l’esperienza religiosa, perciò molto intima e profonda, di milioni di individui.
Non solo. Il social network si trova anche nella situazione di dover rivedere la propria immagine: abbandonato dai giovani, è stato al centro di una serie di controversie riguardanti la gestione dei dati, il rispetto della privacy e, soprattutto, il controllo e la diffusione delle fake news.
L’opportunità è importante: ripulire la reputazione e raggiungere un maggior numero di utenti, ormai abituati all’idea di dover comunicare – e pregare – online dopo il periodo di restrizioni imposte dalla pandemia. Facebook, sostiene Nona Jones, a capo della sezione partnership con gli enti religiosi, diventa un posto amico: chi si sente scoraggiato, o depresso, o isolato, «può andare su Facebook e unirsi, in via immediata, con un gruppo di persone che si prende cura di lui».
Tuttavia alcune perplessità emergono fin da subito. La prima riguarda l’esperienza religiosa stessa. Come fa notare Wilfredo de Jesùs, pastore e tesoriere generale delle Assemblee di Dio «la chiesa online non potrà mai prendere il posto della chiesa locale». E in generale, il cammino di fede prevede lo studio e la conoscenza «di un altro libro» e non può venire ridotto a un ennesima forma di consumo, in stile Amazon o Target.
La seconda, invece, riguarda la diversità degli scopi. Anche se Sheryl Sandberg, direttrice operativa di Facebook, sostiene che le chiese e il social network, alla fine, si occupano della stessa cosa («costruire connessioni») la verità è che la piattaforma ha una finalità commerciale, cerca di monetizzare i dati a disposizione e si mantiene su un piano laico, materiale e secolare. Mentre le Chiese dovrebbero raggiungere i credenti per diffondere e rafforzare un messaggio di fede, che vuole essere religioso e spirituale.
Le due cose coesistono, senza dubbio. Ma il rischio è che gli interessi della piattaforma, prima o poi, potrebbero prevalere su quelli del culto. E a quel punto, per ribaltare la situazione servirebbe un miracolo.