Originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa
A guardarla dalla nave, l’isoletta non ha nulla di speciale: uno scoglio appuntito, alto un centinaio di metri e circondato dal mare per decine di miglia in ogni direzione. Per i velisti più appassionati, rappresenta una sfida, situata com’è in mezzo al nulla, a metà strada tra le coste della Croazia e dell’Italia.
Ma appena si parla con i pescatori o con chi si occupa della salvaguardia dell’Adriatico, questa piccola isola scura assume tutt’un altro significato. «Jabuka è una sorta di celebrità in materia di pesca sostenibile e di protezione degli stock ittici», spiega Igor Isajlović, ricercatore all’Istituto di oceanografia e pesca (IZOR) di Spalato. In realtà, non è tanto la parte emersa di Jabuka (o Pomo, in italiano) ad essere famosa, quanto ciò che la circonda e che porta lo stesso nome: la Jabučka kotlina, o la Fossa di Pomo.
«È un’area profonda fino a 250 metri ed un luogo di riproduzione molto importante, soprattutto per naselli e scampi», prosegue lo scienziato, «fino a qualche anno fa, questo era l’obiettivo principale dei pescatori croati e italiani, ma nel 2017 è stata introdotta una zona di pesca vietata su una superficie di circa 2.700 km2».
Ed è proprio per questo che Jabuka è famosa: a pochi anni di distanza dall’istituzione della “no-take zone” internazionale, i risultati sulla fauna sono sorprendenti e «il modello Jabuka» è diventato un riferimento per tutto il Mediterraneo.
«Sì, siamo sorpresi dalla velocità con cui i pesci stanno tornando nella Fossa di Pomo», ammette Igor Isajlović mentre passeggia nel parco dell’Izor, situato in riva al mare sulla scenica punta del parco di Majdan a Spalato.
«Sono tornate le razze e anche alcune specie di squali tipiche dell’Adriatico, ovvero dei predatori il cui ciclo di vita è molto lento. Di solito questi pesci sono i primi a scomparire quando cala la biodiversità in un luogo. Per questo, il loro ritorno significa che la fauna si è ricostituita», aggiunge Isajlović. Nel suo ufficio, stipato di libri e riviste, i grafici al computer confermano l’aumento generalizzato di tutte le specie commerciali, ovvero di quelle più ambite dalle flotte italiana e croata.
«Guarda qua, nel 2020, a causa della pandemia, i pescherecci hanno fatto meno uscite in mare rispetto al 2015, ma la quantità complessiva di pescato è comunque stata maggiore», afferma il ricercatore, puntando il dito contro lo schermo. Il bello della storia di Jabuka è infatti che il divieto di pesca imposto nel 2017 non ha soltanto permesso di ripopolare i fondali, ma ha anche fatto la fortuna dei pescatori. «Non dovrebbe sorprenderci. I pesci migrano, si muovono, non rispettano i limiti della zona di interdizione di pesca. Così, i pescherecci che lavorano al limite della zona proibita catturano naselli e scampi più grandi rispetto a qualche anno fa e guadagnano di più», conclude Isajlović.
Come si è riusciti a convincere i pescatori croati e italiani (e i rispettivi governi) ad introdurre una zona di pesca vietata proprio in quello che era il loro «obiettivo principale», per dirla con le parole di Igor Isajlović?
Il modo in cui si è arrivati all’accordo del 2017 fa anch’esso parte del «modello Jabuka» e dimostra che si può intervenire anche (e forse soprattutto) a livello transnazionale per ripopolare i nostri mari, troppo a lungo martoriati dalla sovrapesca.
«L’educazione, la sensibilizzazione giocano un ruolo cruciale in questa vicenda. I pescatori devono conoscere l’impatto del proprio lavoro», spiega Danijel Kanski di Wwf Adria, secondo cui «Jabuka funziona perché la decisione è arrivata dal basso, dai pescatori, non è stata imposta dall’alto».
I dati raccolti dal Wwf e da altre associazioni ambientaliste denunciano da anni le criticità della sovrapesca: «L’Adriatico non fa eccezione, più del 90% delle risorse sono sfruttate in modo eccessivo, proprio come nel resto del Mediterraneo», prosegue Kanski, «bisogna creare sempre più zone di pesca vietata, ma la trasformazione deve essere graduale e deve tenere conto anche delle necessità economiche di chi della pesca ci vive».
Attorno a Jabuka, assicura Kanski, si è riusciti a far capire ai pescatori la gravità della situazione e sono stati proprio questi ultimi a proporre ai governi la creazione della zona di pesca vietata transnazionale.
Al largo della costa croata, Joško Pedišić annuisce con il capo a bordo della sua «Jadran 3». Questo capitano di un peschereccio a strascico lavora da anni attorno a Jabuka ed oggi è tra i più strenui difensori del divieto. «Permette ai pesci di crescere e di svilupparsi e a noi di raccogliere esemplari più grossi. Dovete immaginare che un pescatore non cattura pesci, ma soldi», scherza Pedišić, prima di sentenziare «pesci grossi sono meglio che pesci piccoli».
Assieme al divieto di pesca nella Fossa di Pomo, negli ultimi anni sono arrivati anche sistemi di controlli più precisi, come il VMS (Vessel Monitoring System), che permette alle autorità di conoscere in tempo reale la posizione delle imbarcazioni e in particolare dei pescherecci in azione. Anche queste novità non dispiacciono al capitano dall’andatura elegante: «Oggi è difficile entrare per errore in una zona di pesca proibita, questi sistemi ci aiutano a evitare le multe».
Dopo anni di pesca a strascico, Pedišić ha iniziato da poco anche un’attività di “pescaturismo”, usando la propria imbarcazione per mostrare ai turisti come funziona il mondo della pesca. I viaggiatori possono così assistere ad una delle tre pescate giornaliere (una parca di questo tipo può catturare fino a 500 kg di pesce in un giorno) e godersi anche una grigliata fatta al volo sul ponte.
Certo, non tutti i cambiamenti avvengono in modo indolore e, in Croazia come in Italia, gli ultimi anni hanno portato anche ad una diminuzione della flotta di pesca. «Inevitabile», secondo Danijel Kanski di Wwf Adria. «Eravamo in troppi», ammette il capitano Joško Pedišić. Fatto sta che oggi, chi persiste nel settore può godere di una situazione migliore e forse anche per questo difende la scelta di proteggere la Fossa di Pomo. Gli ispettori della pesca così come i responsabili al ministero dell’Agricoltura e della Pesca confermano che le violazioni della «no-take zone» sono rarissime.
«Jabuka è un esempio di buona collaborazione tra Italia e Croazia e sta ora producendo altri accordi. Assieme ai colleghi italiani, ragioniamo assieme alle misure di tutela dell’Adriatico e attuiamo a volte anche dei controlli congiunti anche con gli sloveni», afferma il direttore del dipartimento della pesca al ministero Ante Mišura. «Non ricordo nemmeno un caso di un pescatore che sia entrato di proposito nell’area vietata», aggiunge Mislav Sokol, responsabile dei controlli al ministero. E a livello europeo? Il direttore esecutivo dell’Agenzia europea per il controllo della pesca (Efca), Pascal Savouret, nota una «maggiore consapevolezza» da parte dei pescatori e «un atteggiamento più positivo», «ma parlare di un trend positivo rimane difficile».
Nell’Unione europea, ci sono 82.000 pescherecci a fronte di 1.800 ispettori coinvolti nelle attività dell’Efca. «Non è male, ma per fare un salto di qualità bisognerebbe investire sul Remote electronic monitoring, ovvero sul monitoraggio a distanza che sfrutta tutti i sensori disponibili su una nave. Ma per questo ci servono mezzi maggiori, per poter analizzare una quantità di dati che diventerà imponente», ipotizza Savouret.
La strada è dunque ancora lunga per arrivare ad una pesca sostenibile e soprattutto ad uno ristabilimento delle risorse ittiche del pianeta, ma il caso di Jabuka mostra che anche tra pescatori rivali ci si può intendere, finendo per scegliere il bene comune.