Crisi afghanaServe un ponte aereo con Kabul per salvare chi ha collaborato con noi, dice Lorenzo Guerini

Il ministro della Difesa italiano spiega alla Stampa l’importanza di aiutare i contingenti e i diplomatici che in questi anni hanno lavorato per mantenere la pace in Afghanistan: «Le istituzioni devono essere radicate e forti»

(AP Photo/Kevin Wolf)

Una responsabilità dalla quale l’Italia non può esimersi. È questo il messaggio lanciato sulla Stampa dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Il ponte aereo con Kabul funziona: in quattro giorni gli italiani hanno portato in salvo 600 persone, e molte altre ancora verranno via. «Un dovere salvare chi ha collaborato con noi, con i nostri contingenti, i nostri diplomatici», spiega Guerini.

E poi c’è il punto di vista geopolitico: la batosta per gli Stati Uniti, il fiato corto dell’Occidente, i rapporti complessi dentro l’Alleanza atlantica, gli equilibri strategici nell’Asia. «Il nostro impegno primario – dice il ministro – però ora è il ponte aereo. Il quadro sul terreno è molto fluido».

Il nodo è se i talebani faranno passare ancora le persone che cercano scampo. «Intanto è doveroso il mio personale ringraziamento per lo straordinario lavoro delle Forze Armate italiane che stanno conducendo l’operazione “Aquila Omnia” attraverso la realizzazione del ponte aereo umanitario».

Guerini commenta poi la scelta degli americani, che d qualche mese, spiega, volevano andarsene a tutti i costi. «E a un certo punto, come si dice in gergo, si è passati da una conclusione condition-based a una time-based». La trattativa di Doha ha infatti imboccato un’altra direzione rispetto a quello che consigliavano Roma e Londra.

Una conclusione «time-based» significa che a Washington si è fissata una data a prescindere. E tutti gli altri, volenti o nolenti, si sono dovuti adeguare. «E senza la preziosa cornice di sicurezza americana, senza i loro assetti pregiati, si poteva solo organizzare un rientro in sicurezza e coordinato. Questo infatti è stato il mio dovere: riportare a casa i nostri soldati sani e salvi. Dopo di che, va detto che tra alleati è stata una decisione molto discussa, e non solo sul versante tecnico-militare», spiega Guerini.

Gli afghani, da parte loro, da quel momento in poi hanno pensato soltanto a come salvarsi dalla tempesta in arrivo. «E non è vero che le forze di sicurezza non erano in grado di resistere. Erano state preparate adeguatamente. In questi ultimi anni avevano sostenuto valorosamente l’impatto dei talebani. Ma i soldati hanno deciso di non combattere per il loro governo».

Guerini non si sente di dare addosso agli americani perché non se la sono più sentita di svenarsi, economicamente e militarmente, per un Afghanistan dove erano arrivati venti anni fa. «Le missioni nascono in un dato contesto, si evolvono, magari cambiano, ma devono arrivare a una fine. E che gli americani volessero chiudere la missione afghana, era noto a tutti e da tempo», ripete il ministro.

Biden ha anche detto che in Afghanistan non ci avevano nemmeno provato a costruire uno Stato. Guerini sul punto apre a una riflessione. «Ora siamo sovrastati dall’emozione, dal dramma, dalla paura di tanti. Pensiamo al valoroso sacrificio dei nostri soldati, lì morti o feriti. E ciò che vediamo, interpella prima che l’intelligenza politica, la coscienza di ciascuno di noi. Detto questo, un impegno ventennale come quello profuso in Afghanistan ci obbliga anche a interrogarci sugli obiettivi, gli strumenti, le lezioni apprese».

Lezioni che tutto l’Occidente dovrebbe apprendere e immagazzinare. «Credo che sia giusto, come ministero della Difesa, su un piano prettamente militare, riflettere su alcuni concetti di fondo che hanno ispirato il Paese in questi anni».

Ma è anche evidente che addestrare eserciti non è sufficiente se si vuole la stabilità di un’area. «Le istituzioni devono essere radicate e forti». Altrimenti tutto lo sforzo non serve a nulla.

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