Quando 25 anni fa i talebani conquistarono per la prima volta l’Afghanistan promisero, anche in quell’occasione, che non ci sarebbe stata nessuna vendetta. Il rancore personale sarebbe stato messo da parte, dissero, e tutti avrebbero potuto fidarsi di loro. Nel frattempo l’ex presidente Mohammad Najibullah veniva preso da casa di notte, portato al palazzo presidenziale, tramortito di botte, evirato. I talebani gli misero i genitali in bocca, lo legarono dietro a una jeep e lo trascinarono intorno al palazzo per vari giri. Alla fine lo uccisero sparandogli. La stessa tortura venne riservata al fratello.
Come fa notare Graeme Wood sull’Atlantic, anche 25 anni fa i talebani parlarono di amnistia, richiamarono al lavoro i civili e garantirono che sotto la legge islamica ci sarebbe stata pace e stabilità. Il punto, spiega il giornalista e scrittore americano, è che la retorica è sempre la stessa, così come uguali sono gli obiettivi primari (evitare il caos). Solo chi non conosce bene i talebani può pensare che siano davvero cambiato e che, stavolta, le cose andranno in maniera diversa.
In qualche modo lo si è già potuto vedere: durante la conferenza stampa, i leader hanno dichiarato che le donne potranno continuare a studiare (ci sono state segnalazioni, al contrario, di casi in cui è stato da subito impedito) e in generale verranno preservati i diritti umani e la libertà di espressione, sempre che ottemperino alle regole della sharia. Che è un altro modo per dire no.
L’apparente volto pacifico dei talebani è solo tattica e, se si pensa che è la stessa impiegata negli anni ’90, non ci si può aspettare niente di buono. A 25 anni di distanza ripetono le stesse cose: niente rancore per nessuno, ma un ritorno alla legge islamica, che forse sarà un po’ meno rigida rispetto a prima (ma è difficile immaginare come).
Se possibile, i talebani sono diventati perfino più pericolosi di una volta. Prima di tutto perché entrano a Kabul da vincitori assoluti, quasi privi di opposizione e di gruppi rivali. La prima volta avevano dovuto combattere contro altre organizzazioni e la loro presa del territorio era comunque minacciata. In secondo luogo perché provengono da 15 anni di resistenza, in cui la loro durezza è stata solo ricompensata. Alcuni hanno vissuto periodi di prigionia a Guantánamo e anziché ammorbidire lo stile di governo hanno piuttosto raffinato l’arte diplomatica della doppiezza.
Lo si è visto in tante occasioni ma soprattutto nel negoziato con Washington nel 2020, firmato da Donald Trump. La base dell’accordo – l’America se ne va in cambio dell’interruzione dei rapporti con i terroristi – è, di fatto, già violata. In Afghanistan i foreign fighters sono presenti da tempo: ci sono gli uzbeki dell’IMU (Islamic Movement of Uzbekistan), affiliati ad Al Qaeda, e i gemelli tagiki dell’IMT (Islamic Movement of Tajikistan), entrambi fondati da Tohir Yo’ldosh. Si contano anche uiguri nel celebre corridoio di Wakhan, creato per ragioni geopolitiche nel 1893 per separare l’impero britannico da quello russo e che fa confinare l’Afghanistan con la Cina.
A questo proposito i talebani sono stati attenti, nei mesi precedenti, a rassicurare russi e cinesi sul loro impegno a non ospitare gruppi terroristici. Una posizione che non ha convinto tutti gli analisti anche perché, secondo questo rapporto Onu di gennaio 2021, i rapporti tra Al Qaeda e talebani non si sono mai davvero interrotti. Non a caso, dopo la vittoria dei guerriglieri, anche l’organizzazione terroristica si è complimentata con loro.
Insomma, è vero che in 20 anni di presenza l’America non è riuscita a lasciare dietro di sé una democrazia funzionante, ma ha comunque (ri)costruito un Paese dotandolo di un apparato burocratico, istituzioni, scuole e ospedali. Una generazione intera è vissuta senza conoscere, salvo in qualche provincia, la ferocia talebana. Adesso le cose sono cambiate: purtroppo il sistema è fragile e quanto è stato fatto con molta difficoltà può tornare a essere in poco tempo, la distopia estremista di una volta.