Come è profondo BenigniSiamo dolcemente complicate, e alla ricerca di uno specchio che ci migliori

La performance romantica dell’attore sul palco del Festival di Venezia ha fatto sdilinquire molte mie amiche che non si sono accorte che Benigni fa quello di lavoro e che, come nelle canzoni riuscite di Dalla o Jovanotti, il mestiere serve proprio a mettere in bella copia la realtà

POOL Vittorio Zunino Celotto / Getty Images/LaPre

Fino a ieri non sapevo di conoscere quelle donne di cui borbottava Vasco quand’ero piccina: inguaribili romantiche, un po’ nevrotiche, però simpatiche. Poi, l’altroieri, due donne che conosco erano in Sala Grande, il posto in cui si svolge la cerimonia inaugurale del festival del cinema di Venezia. Roberto Benigni è andato a prendersi il Leone d’oro alla carriera; ha parlato di (e a) sua moglie; e, sugli Instagram delle mie amiche, trucchi e parrucchi d’un certo livello si sono liquefatti mentr’esse piangevano come vitelle. 

Ho creduto fossero in premestruo, ho creduto fossero eccezioni. Ma la mattina dopo, ieri, l’internet era piena di donne d’ogni età e d’ogni fase del ciclo mestruale che si sdilinquivano per Benigni (e di uomini che straparlavano, ma di loro diciamo tra un po’). 

Ho pranzato con un’amica, e lei m’ha detto che l’insensibile ero io. E quindi mi sono messa ad ascoltare quel che il consenso per Benigni diceva: il nostro (fingo d’immedesimarmi, da piccola ho studiato il metodo Strasberg e so che alla lunga diventa vero) bisogno di stucchevole sentimentalismo (tutto il sentimentalismo è stucchevole: non sarebbe sentimentalismo se non fosse stucchevole). 

Quelli che di mestiere stanno sul palco hanno sentimenti, certo; ma, soprattutto, hanno mestiere. Non conosco Nicoletta Braschi, ma sono ragionevolmente certa che fosse meno commossa delle mie amiche: vive con uno che campa di parole pubbliche da abbastanza decenni da sapere che sì, è tutto vero, ma è anche tutto calcolato. 

È mestiere, è performance, è materiale scenico: che tu sia Federico Fellini che dal palco degli Oscar dice a Giulietta Masina di non piangere, o Lorenzo Jovanotti che scrive, in una canzone dedicata alla moglie, «a te che hai dato senso al tempo senza misurarlo» (chissà se, quando ha scritto quel passaggio del discorso che faceva «conosco solo una maniera di misurare il tempo: con te e senza di te», Benigni s’era appena tolto A te dalle cuffiette). 

Solo i poveri di spirito possono pensare che il mestiere tolga qualcosa all’autenticità del sentimento: è proprio perché sai mettere in bella prosa la verità, che le platee si commuovono. 

Da cui le mie conoscenti col fondotinta rigato dalle lacrime, da cui la mia commensale che mi accusa d’aridità sentimentale, da cui ventiquattr’ore (a questo punto saranno trentasei) di pubblici struggimenti femminili, e uomini che sgridano Benigni perché non li fa sembrare all’altezza: loro dichiarazioni d’amore così mica le sanno fare. 

Ma il fatto è che la dichiarazione di Benigni era molto banale, giacché banale è l’amore: altrimenti non avremmo tutte trascritto sul diario le stesse canzonette, nelle adolescenze novecentesche. 

Mi pare fosse Pessoa a dire che tutte le lettere d’amore sono ridicole, non sarebbero lettere d’amore se non fossero ridicole – ma ecco, sì: ognuno ama a suo modo, per citare un altro Jovanotti, ma tutti gli amori sono uguali, aggiungo io annakarenizzandogli il verso. 

C’è un altro elemento che ha a che fare con le dichiarazioni d’amore e le canzoni, ed è che non vogliamo più sentire roba migliore di noi: vogliamo sentire roba che avremmo potuto dire noi. 

Se oggi uscisse Come è profondo il mare, la platea non solo lo schiferebbe ma userebbe le proprie pagine social per accusare Dalla di bullizzarla con paroloni a essa ignoti quali «linotipisti». 

Non a caso A te è la canzone di tutti i matrimoni e tutti i video sentimentali di Instagram: dice «a te che non ti piaci mai e sei una meraviglia», che è il verso che potrebbe dirsi allo specchio una qualunque esponente d’una generazione di mitomani che ama dirsi malata di sindrome dell’impostore. 

E quindi Benigni è stato perfetto, perché è troppo evidente che non siamo delle fuoriclasse, dei geni, delle Nobel, e quindi ci serve una consolazione, ci serve il premio di consolazione: quel che vogliamo sentirci dire è che siamo muse, ispiratrici, indispensabili al genio altrui. «Se qualche volta nel lavoro che ho fatto qualcosa ha preso il volo è stato grazie a te», diceva lui dal palco a Nicoletta in platea, e noialtre lì davanti allo streaming a frignare che sì, parla proprio di me, come avrebbe fatto lui senza di me, e non importa che il lui del nostro parallelismo non sia un genio, un premio Oscar, un colosso dello spettacolo, ma un commercialista, un linotipista, un internista. 

Soprattutto, vogliamo sentirci dire che siamo meglio degli uomini (e quindi, implicitamente, che è perché il mondo è ingiusto e non riconosce il nostro valore che non siamo in grado non dico di far carriera ma anche solo di farci ubbidire da gente sotto al metro d’altezza). 

Benigni che cita Groucho Marx, «Gli uomini sono donne che non ce l’hanno fatta», è la versione brillante (il mestiere, dicevamo) delle mamme che nei gruppi Facebook dicono l’una all’altra «siamo donne, possiamo tutto» per incoraggiarsi a vicenda rispetto a gravose questioni quali un litigio con la suocera o il licenziarsi entro il primo anno di vita del figlio per scroccare l’indennità di disoccupazione. 

Vogliamo uno specchio, ma che ci migliori. Benigni lo sapeva, e ce l’ha dato. 

Poi certo, ci sono le indignate in servizio permanente effettivo che ci hanno ricordato che è uno schifo, la riduzione a musa, la negazione d’un’autonomia professionale e personale, il patriarcato. 

Quella che mai vorrebbe essere amata così. Quella che allora se dietro a ogni suo successo c’è lei dovevano premiare lei, ma premiano sempre i maschi. Quella che se misuri il tempo tramite lei poi quando lei ti lascia vai in tilt e la ammazzi. 

In effetti mi pare il caso di considerare Benigni e il suo Leone e il suo dire alla moglie che emana luce mandanti morali dei prossimi assassini di mogli. In effetti la moglie in platea è negli ultimi trent’anni rimasta sposata a lui non per scelta ma sotto minaccia armata. In effetti accompagnarsi a un genio non è un mestiere piuttosto impegnativo, ma una seconda scelta alla portata di noialtre – che, mai in proprio ma sempre per procura, possiamo essere romantiche o militanti, ma comunque inguaribili.