Non vi è nella storia della cultura italiana uno scrittore come Artusi in cui l’alto e basso spesso si siano mescolati. Talvolta né a torto né a ragione. Spesso anche con cognizione di causa. Eppure a leggere la destinazione del suo “manuale” di ricette, l’indirizzo più consono avrebbe dovuto essere il midcult. La traccia di questo bed & breakfast critico, per come ha accolto, abbastanza a buon mercato, sotto il medesimo tetto le più disparate pratiche gastronomiche e le teorie linguistico-geografiche, è anche nell’aver individuato e scardinato nel corso degli anni che ci separano dall’ultima edizione de “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene”, la quindicesima, curata in vita da Artusi e pubblicata postuma nel 1911, tutti i luoghi comuni e falsi che avvolgevano nella leggenda sia la vita sia il libro.
Così è passato per le mani di provette casalinghe come di improvvide sposine e di recente, più che le cucine per i commenti di chef-star e ancora in raffinati apparati critici di storici della cultura e della lingua italiana. Comunque non è qui il caso di giocare a vero e falso. Lo si è fatto in più occasioni e questo gioco è stato messo anche nero su bianco. Ma, qualche cono d’ombra ancora avvolge la figura di Artusi e al di là del tentativo di descotomizzatare il personaggio dalle sue più evidenti idiosincrasie, la domanda che più ricorre è: “Cosa ha veramente detto Artusi?”. Questo interrogativo ha percorso come un elastico – dunque anche a ritroso – tutto il lavoro intorno alla curatela dell’edizione de “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene”, pubblicata da “La nave di Teseo” lo scorso anno in occasione del bicentenario della nascita del scrittore di Forlimpopoli. Pur se posto in prospettiva storica ed integrale e avendo davanti – nel periodo più cupo del primo lockdown – la maggior parte della letteratura sull’argomento.
Infatti, il discrimine sta ex post nell’intervista concessa da Marietta Sabatini, l’ultima ed estrema e più fidata delle collaboratrici di Artusi (l’altro collaboratore Francesco Ruffilli era l’esecutore dei comandi, come ci raccontano le lettere pervenute dei due “domestici scrittori”, peraltro ereditieri della fortuna dell’ex-mercante); la giovane originaria del comune di Massa e Cozzile era più di governante, era l’autentica tuttofare-ombra dell’opera del suo datore di lavoro. La testimonianza, l’unica che realmente racconti il privato di Artusi, fu pubblicata da “La Cucina Italiana” negli anni Trenta, quando ormai la donna era anziana e forse i suoi ricordi stavano sbiadendo con l’incedere del tempo. Di certo, se il lato pubblico di Artusi era completamente assorbito dal successo del suo libro, quello privato restava muto e chiuso nelle mura dell’appartamento fiorentino di Piazza d’Azeglio (L’autobiografia pubblicata postuma, peraltro incompiuta non racconta l’avventura de “La Scienza”, ma dà uno spaccato del giovane Artusi, quasi un altro da sé).
Ecco che nelle parole di Marietta quel cono d’ombra sembra schiarirsi, l’agiato e borghesissimo Pellegrino, auto-pensionatosi, dopo aver realizzato l’ambizione di diventar critico letterario (oggi i suoi primi due libri restano come prove generali di quello che sarà il terzo ed ultimo), uncina al proprio desco di lavoro un mondo plurale e allo stesso modo singolare nelle sue tante sfaccettature regionali che reclamava una unità di senso, nemmeno più tanto sottovoce sebbene istanze campanilistiche persistono ancor oggi in un tempo in cui la linearità dell’esistenza è diventata curvatura multipla e divisa tra vita reale e vita connessa. Questo mondo era la cucina, la tavola, era il desinar quotidiano di centinaia di famiglie, cui consegnò in eredità non solo un libro. Più che un dire, un fare: quel “tutto vi dono” aperto ad una comprensione che i tempi stavano cambiando, allora come oggi.