Il giorno in cui la Lega farà un congresso democratico sarà un giorno positivo per la democrazia. Da qualche parte anche Matteo Salvini ne ha accennato, certamente per non lasciar brandire quest’arma ai suoi oppositori interni: buon viso a cattivo gioco. Ma verrà quel giorno? Sperare è lecito, dubitare però è doveroso.
Perché la Lega, da quando è nata, si è caratterizzata per essere un partito a forte presa popolare (in una forma nella quale si annidava un primissimo grumo di populismo) e a fortissima impronta leaderistico-cesarista.
L’indiscutibile leadership di Umberto Bossi poggiava esattamente su un consenso talmente entusiastico, alla sudamericana, da escludere, perché superfluo, ogni tipo di verifica congressuale: in questo Bossi è stato quello che Berlusconi fu per Forza Italia. Sono stati soprattutto due “capi” più che due leader politici. E i “capi” non fanno congressi, non ne hanno bisogno, soprattutto non hanno un’opposizione interna che li reclami.
Questo è rimasto uno dei segni distintivi della Lega anche quando, dopo gli anni un po’ confusi di Roberto Maroni, nel 2013 alla segreteria ascese l’allora giovane Matteo Salvini, il quale implementò ulteriormente il tratto leaderistico del suo partito denominandolo “Lega per Salvini premier” (la Lega Nord di Bossi sempre si vantò di non aver inserito il nome del leader nel simbolo).
Finché le cose sono andate bene, anzi benissimo, la dialettica interna o è rimasta sotto traccia o si è limitata ad una serie di distinguo e punture di spillo che non hanno mai turbato davvero il primato di un leader ribattezzato addirittura come il “Capitano”, in un delirio da socialismo reale (il “Conducator” rumeno Ceaucescu) che ha trovato il suo argine non nella caduta del Muro di Berlino ma in uno strapaesano stabilimento balneare romagnolo. Perché lì, al Papeete, è iniziata un’altra storia. È allora che si è capito che il Capo può sbagliare.
Da allora, malgrado l’astuzia “europeista” che gli ha consentito l’ingresso nel governo Draghi, Salvini ha sentito odore di de-salvinizzazione della Lega, ha scorto le ombre del dissenso, ha letto di alternative reali alla sua supremazia.
La pandemia ha indotto la Lega a sdoppiarsi in dottor Jekyll e Mister Hyde, i responsabili e i no vax, i sostenitori della scienza e gli sciamani da luna park, quelli attenti alla crescita e gli sfasciacarrozze, i giorgiettiani e i borghisti, con lui, l’ex Capitano, in mezzo e illuso che la sua ambiguità di lotta e di governo potesse soddisfare tutti i palati e finendo invece per mescere una bevanda indigeribile.
Ora sta a lui tagliare il cordone “leninista” che da sempre impedisce una discussione libera e limpida, nonché una verifica della leadership: come avviene in tutti i partiti davvero democratici. Innanzi tutto per farci capire se la spaccatura è reale, strutturale, o è un giochetto delle parti buono per tenere i piedi in due staffe. Gli elettori leghisti in primis, e tutto il Paese, avrebbero il diritto di saperlo.
Sarà in grado, Matteo Salvini, sarà così intellettualmente onesto e politicamente avveduto da poter sottoporre davanti a un congresso la sua linea e il suo comando? Sarà capace, la Lega, di scegliere con chiarezza se mutare nella direzione di un moderno partito conservatore e democratico e portatore di interessi legittimi, o se rinculare verso i lidi dell’estrema destra ove disputare i consensi a Giorgia Meloni?
Non sono domande da poco cui si possa rispondere in un talk show e nemmeno in un comizio di piazza. Serve un chiarimento certo e in forme solenni. Salvini non può stare fermo, per la prima volta il suo partito è in subbuglio, i gruppi parlamentari non tengono, le prossime amministrative saranno una disfatta, specie nella sua Milano. O avrà la forza d’animo di fare chiarezza o un congresso – o, peggio, una manovra nel sottoscala di via Bellerio – lo seppellirà.