Giù a destraAnche l’altro corno del bipopulismo, quello salvinian-meloniano, è un po’ spuntato

Non solo la scelta di un candidato fragile a Milano e di un candidato imbarazzante a Roma ma anche molti altri segni fanno pensare che la combo sovranista formata da Lega e Fratelli d’Italia stia ormai perdendo smalto

Roberto Monaldo/LaPresse

Nella politica pop di questi anni e nella frenesia collettiva di trovare simboli e personaggi in cui identificarsi, la velocità dei mutamenti di opinione è impressionante: quel tanto di effimero che si trova nella politica pop fa sì che il consenso cresca e crolli nel giro di poco tempo. E dunque all’improvviso su leader in grande spolvero si viene improvvisamente addensando una tempesta perfetta, un mutar di gusti, che può sommergerli: l’esempio più evidente è quello di Matteo Renzi, che peraltro continua a darsi da fare in mezzo alle onde in attesa di capire dove sia il suo approdo. Non parliamo poi del M5s, un soggetto che ha saputo prendere il gagliardo vento populista degli anni scorsi che però gli si è rivoltato contro, lasciando il posto a una “roba contiana” che non è chiaro cosa sia. A sinistra il Pd continua a costeggiare la riva aspettando che si alzi un qualche vento. E poi c’è la destra. Qui bisogna cominciare a mettere giù un discorso nuovo.

Bisogna fare attenzione ai segni. Possono voler dire niente e possono voler dire moltissimo, i segni. Per esempio: a chi ricorda non diciamo i lontani comizi di Giorgio Almirante ma quelli di Gianfranco Fini a piazza del Popolo a Roma la manifestazione di sabato di Giorgia Meloni è parsa poca cosa. Appena discreta. Dalle fotografie si vede una massa accalcata con tante bandiere, il che fa buona scenografia, tanti militanti senza popolo, niente di paragonabile alle grandi manifestazione della filiera Msi-An. E soprattutto nessun messaggio forte, a meno che non si voglia considerare forte l’assunto meloniano secondo il quale «per la sinistra il Covid è una mangiatoia». Quindi per la sinistra “viva il Covid”? Non scherziamo.

Poi sul palco è salito Enrico Michetti, il candidato più imbarazzante della storia di Roma, ed è stato subito buio a mezzogiorno. Mentre intanto a Milano (nella Milano già segnata dal berlusconismo e dal leghismo, non a Modena) il candidato sindaco della destra, dottor Luca Bernardo, batteva cassa («50mila euro entro questa settimana altrimenti mi ritiro») a dimostrazione  di quanto non sia infondata la sintetica opinione di Vittorio Feltri (candidato con FdI): «È una coalizione del cazzo». L’episodio è ridicolo ma fa capire in quali condizioni si sia ridotta la destra milanese, che per prima sa che sarà distrutta da Beppe Sala e dalla sua coalizione. Così, tra personaggi improbabili e problemi politici reali, la destra sta andando incontro a una débâcle elettorale che lascerà lividi e ferite sul proprio corpo che forse le faranno abbassare qualche penna, con sollievo di Mario Draghi. E forse costituirà l’apertura di una fase nuova.

I segni però non sono solo questi. Forse c’è qualcosa di più profondo nelle difficoltà attuali della destra. Come se un’illusione di massa stesse progressivamente svanendo all’ombra della inconsistenza della proposta politica dei sovranisti, speculare alla stessa disillusione che ha riguardato il populismo grillino. È un caso questo doppio scricchiolare del bipopulismo? Quello che si intravede è che grillismo e sovranismo appaiono legati dalla legge del simul stabunt simul cadent, a conferma dell’esistenza di un intimo intreccio tra i due fenomeni: il che non significa la fine del bipopulismo ma una sua progressiva perdita di egemonia, d’altronde riscontrabile anche a livello europeo, intesa proprio in senso gramsciano, come incapacità di direzione politica e morale.

Infatti nel sentire comune i miti gialloverdi sono sempre più un ricordo lontano, dai navigator agli immigrati lasciati in mezzo al mare, dalla scatoletta di tonno alle pistole facili, insieme alla retorica nazionalista e antieuropea di Meloni proprio nel momento in cui l’Europa ha preso a funzionare, Trump è finito e i sovranisti più imbevuti di neofascismo, dalla Le Pen a Vox, hanno perso slancio. Giorgia non ha visto per tempo il mutare di segno del clima europeo e ha continuato e continua sulla vecchia strada, non rendendosi conto della, in effetti sorprendente, efficacia della risposta europea che in Italia ha trovato il suo interprete in Mario Draghi.

E infatti il mitico popolo sovranista («Prima gli italiani») non è più quello di una volta. La destra ha scambiato un fenomeno reale ma senza respiro per un prodromo rivoluzionario, per una scintilla capace di accendere il falò della democrazia. Non ha capito la portata della novità storica venuta con la pandemia e si è illusa di poter cavalcare i no vax non si capisce nemmeno sulla base di quale ragionamento: la lesione delle libertà? Detto da Massimo Cacciari fa discutere, detto da Salvini e Meloni fa ridere: puzza troppo di propaganda. Ma poi da quando in qua una grande forza politica punta su minoranze esagitate? Infatti è bastata l’idea del green pass per mettere in rotta un piccolo esercito senza meta. Un segno anche questo di come la destra non capisca più dove fare politica, con chi e per che cosa.

E poi ci sono i segni “soggettivi”. A partire dalla drammatica debolezza dei gruppi dirigenti che, quando i leader sfioriscono, hanno la funzione di sostenerli. Prendiamo Fratelli d’Italia. Meloni ha (avuto) il suo momento d’oro, ma senza qualcosa di “ideologicamente” robusto alle spalle la sua leggerezza politico-culturale viene presto fuori (non basta un libro azzeccato per coprire il problema) e d’altra parte la destra è passata da Domenico Fisichella a Daniela Santanché, plastico passaggio dai cieli della filosofia alle sedioline dei talk show. Mentre il suo competitor Matteo Salvini a un certo punto, proprio nel momento più alto della sua parabola, ha dapprima gettato il biglietto della lotteria su una spiaggia romagnola, poi, dopo essersi ripreso con l’astuzia “europeista” che gli ha consentito di entrare nel governo Draghi, è nuovamente entrato «in confusione» (ancora Vittorio Feltri), con questa pratica del partito di lotta e di governo che non è una linea politica ma il segno, forse, di uno smarrimento non solo politico ma anche umano, il che sarebbe legittimo per un uomo non abituato al dissenso che ora vede ovunque congiure interne. E anche questo è un segno.

In conclusione, occhi aperti sulla destra italiana. Che è forte, sì, ma forse meno di prima. Pare che lo smalto di pochi mesi fa inizi a evaporare. Può essere solo un momento e può essere l’inizio di una discesa agli inferi della politica, una giravolta della storia destinata a punirla. Non sarebbe la prima volta, per la destra estremista.

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