Tra i segni più incoraggianti di una possibile evoluzione del nostro sistema politico, le numerose prese di posizione di Forza Italia e di un pezzo sempre più consistente della Lega, dei suoi ministri, dei suoi presidenti di Regione e anche di molti dei suoi referenti sociali, contro le uscite più irresponsabili e demagogiche di Salvini, nella sua personale sfida populista con Giorgia Meloni: dai vaccini al green pass.
Considerato com’era cominciata la legislatura, l’apertura anche solo di una parvenza di dialettica interna nel centrodestra, e persino nella Lega, dovrebbe essere per qualunque democratico una specie di Eldorado. Il bene più prezioso, da coltivare e far crescere in ogni modo, se vogliamo avere la speranza di vedere un sistema politico decente, in cui l’alternanza al governo tra i diversi schieramenti rappresenti la fisiologia della vita istituzionale, e non una minaccia ai suoi principi basilari.
Tutte le discussioni e le strategie attorno all’elezione del prossimo presidente della Repubblica, alle eventuali elezioni anticipate, alla futura conformazione delle coalizioni e alla legge elettorale – questioni evidentemente connesse – dovrebbero dunque partire da qui. E cioè dalla domanda: quale strategia consente maggiormente di favorire una simile evoluzione, diciamo pure centripeta, del quadro politico? Quale presidente della Repubblica, e dunque quale coalizione di grandi elettori, potrebbe meglio garantire tale disegno?
Il punto è tutto qui: confermare l’evoluzione avviata con il governo Draghi, chiudendo la strada a chi vuole una sua rapida archiviazione per tornare a uno schema bipolare tra due coalizioni entrambe a guida populista (Conte da un lato, Salvini-Meloni dall’altro). Un esito che rischierebbe di riportarci rapidissimamente proprio al punto da cui eravamo partiti all’inizio di questa legislatura, con tutti i rischi connessi.
La tragedia è che a spingere in questa direzione non sono solo, com’è più che naturale e legittimo, i populisti di entrambi fronti, i loro sostenitori nei giornali e negli altri partiti (assai numerosi dentro Pd e Leu). Ci sono pure i cosiddetti riformisti, che ancora una volta, in nome del bipolarismo di coalizione e della lotta contro lo strapotere delle segreterie di partito (che vedono solo loro, perché in merito sono più grillini dei grillini), fanno del loro meglio per regalare alla destra populista una posizione di forza talmente comoda da consentirle di mettere a tacere in un minuto qualunque voce dissenziente. Basta sentire i discorsi che si sono fatti in questi giorni all’assemblea di Libertà uguale (la corrente degli ultra-riformisti del Pd) contro «la palude proporzionalista», ma anche più di un passaggio nell’intervento pronunciato ieri da Enrico Letta alla festa nazionale dell’Unità («Siamo entrati in una fase nuova: si chiude il periodo iniziato nel 2013 quando era finito il bipolarismo e nato un tripolarismo che ha fatto saltare tutto. Stiamo entrando in una fase nuova di bipolarismo estremo e un nuovo schema politico in cui o si sta di qua o di là: non c’è posizione intermedia che abbia la minima possibilità di fare qualcosa di utile»).
Prima o poi gli storici del futuro si incaricheranno di spiegare agli italiani come il ventennale predominio di Silvio Berlusconi sulla scena politica sia stato garantito proprio dai presunti antiberlusconiani, che in nome del bipolarismo maggioritario e dell’orrore per ogni manovra parlamentare («inciucio», nel loro linguaggio proto-grillino), gli hanno ripetutamente riconsegnato le catene con cui ha tenuto prigionieri alleati e possibili rivali interni.
Se Enrico Letta e il suo gruppo dirigente ripeteranno un simile errore, non già però con Silvio Berlusconi, stavolta, ma con Meloni e Salvini, potranno anche ricevere qualche applauso nell’immediato dagli incorreggibili aficionados del maggioritario a prescindere, ma la responsabilità storica che si assumeranno peserà ben più a lungo, su di loro e purtroppo anche su tutti noi.