Soncini derubataPoche persone mi irritano di più di quelle che cianciano di quello di cui oggi ciancio io stessa

Ieri mattina, mentre voi dormivate della grossa, io mi ero già irritata con almeno tre persone prima di scoprire che mi avevano rubato il telefono. Mi è crollata una delle poche certezze che avevo e cioè che una cosa con i tasti non la ruba nessuno. Cronaca di un viaggio senza smartphone

Photo by Michael Dziedzic on Unsplash

Poche cose mi irritano più degli articoli in cui gente con pochissima voglia di lavorare ci dice che per colpa dei cellulari non si smette di lavorare più, non si stacca mai, e si va in – quando leggete questa parola in un articolo in lingua italiana potete star certi che chi scrive è imbecille – burnout.

Poche persone mi irritano più di quelle che cianciano che siamo ormai troppo legati ai nostri telefoni, e oggi sarò una di quelle persone. Se vi irrito, vi lenisca sapere che per scrivere questo prezioso elzeviro ho dovuto cercare, nel corridoio d’un intercity, il caricabatterie dell’iPad sepolto in fondo a un trolley, e per trovarlo ho fatto schizzare un reggiseno in faccia a uno studente americano che l’avrà come minimo presa per una molestia sessuale e sarà corso tosto a denunziarmi (chissà se avrà più fortuna di me).

Ieri mattina, mentre voi dormivate della grossa, e io mi ero già innervosita con la signorina dell’albergo che non sapeva usare il pos e con l’autista in ritardo, ieri mattina, in un momento imprecisato tra le 8 e le 9, alla stazione di Genova Porta Principe, mi hanno rubato il telefono, giacché la domenica mattina presto lavoriamo solo io e i ladri.

Sono certa dell’intervallo temporale perché, scesa dalla macchina, ho mandato un messaggio di lagne a Luca Bizzarri (ciao Luca, sei contento che non abbia più il telefono quindi il tuo numero?); e perché, una volta deciso che era troppo presto per andare al binario, bisticciato con un barista che non voleva scaldarmi il tramezzino, e sedutami al ridente bar della stazione, ho cercato il telefono in borsa, non l’ho trovato, ho bestemmiato per il telefono rubato ma più che altro per la mia capacità di capire le cose cinque secondi prima degli altri e dovermi quindi sorbire cinque secondi di nervi in più, ho chiesto a una turista di chiamarmi e, mentre la normodotata mi diceva che probabilmente l’avevo silenziato, ho avuto dal non squillo la conferma che me l’avevano rubato.

Poche cose mi irritano più del crollo delle mie pochissime certezze. Sto (moderatamente) attenta al portafoglio, ma mai al Blackberry, perché dio non esiste, il comunismo è morto, e l’unica certezza che resta a noi tutti è che i Blackberry non li ruba nessuno. Davvero, signor ladro? Un telefono coi tasti? Cosa diamine se ne fa? Chi glielo compra? Sospetto che neppure i miei autoscatti nudi abbiano mercato, davvero, se mi rubava la scatola di Synflex che stava nella stessa borsa ci svoltava due spicci in più. Dica la verità, la manda qualcuno per dispetto? L’editore stizzito perché ho preteso un biglietto di prima classe? Il barista offeso perché secondo lui i tramezzini si mangiano freddi? (Peraltro il tramezzino della stazione faceva veramente schifo, non dico che pretendessi Cracco ma insomma almeno la decenza).

Ma non divaghiamo, disse lei col tono con cui gli alcolizzati promettono di non bere più.

Se non avete idea di cosa significhi farsi rubare il telefono quando devi prendere tre treni in ventiquattr’ore, e quelle ventiquattr’ore sono ventiquattr’ore pandemiche, ve lo spiego volentieri. Provato per voi, come dicono i giornalisti (o forse gli influencer).

Posto di polizia della stazione. «Innanzitutto non pensi di avere fretta perché ci vogliono minimo due ore».

Sono in anticipo, ma non così tanto. Due ore per denunciare «mi hanno rubato il telefono in un qualche punto tra l’ingresso della stazione, il binario 14, e il bar»? È un modo di far desistere il derubato e far calare le statistiche dei reati? Non glielo chiedo: voglio solo sapere come si fa in questi casi per il biglietto. Glielo chiedo. Mi guardano come se gli avessi ordinato due etti di prosciutto tagliato fino, come pensassi d’essere chissà dove invece che al posto di polizia della stazione dove mai sarà successo che arrivasse qualcuno cui avessero rubato il telefono con dentro il biglietto. O uno studente americano cui avessero tirato un reggiseno in faccia.

Se vuole fare la denuncia deve dirci tutti gli spostamenti perché dobbiamo controllare le telecamere. La credibilissima immagine delle accurate indagini con visualizzazione di filmati per il furto d’un telefono smetterà di farmi ridere forse l’anno prossimo. Intanto quelli mi stanno svelando che il tutto è tanto per parlare: comunque la denuncia non può farla adesso perché non c’è un ufficiale.

Capisco che devo arrangiarmi. Cerco un wifi. Non c’è. Cioè ce ne sono vari ma non ne funziona nessuno, d’altra parte è il 2021, quante pretese. Torno verso il posto di polizia. È chiuso. Un signore mi dice: sono andati a prendere il caffè. Li trovo che escono dal bar. Scusate, avete un wifi, così mando una mail dall’iPad chiedendo di recuperarmi il biglietto? Nei commissariati non c’è il wifi, mi risponde uno dei tre col tono che sarebbe sensato usare se avessi chiesto: avete mica due spogliarellisti con cui intrattenermi?

A quel punto mi rendo conto del dramma: altro che biglietto, il mio problema è la certificazione verde. Certo che ce l’avevo sul telefono, certo che non l’ho mai stampata. Come se non sapessi che bisogna stampare tutto: quest’estate ho trovato certe mail sputtanantissime degli anni Novanta che, se all’epoca non si fosse usato stampare tutto, sarebbero andate perdute nella pioggia insieme alla mia possibilità di scrivere memoir.

Trovo una tacca di wifi di un bar. Da Instagram, mando vocali sconnessi a un’amica. Questa è la casella di posta alla quale mi hanno mandato il biglietto e il certificato verde, questa è la password, me li giri sulla posta che ho configurato sull’iPad e che non è la stessa perché sono scema? (L’ultima parte è sottintesa).
Lucidissima, solo dopo tre messaggi (ciao amica, scusa l’allarme mattutino) mi rendo conto che, se la posta può aprirla da un browser lei, posso aprirla anch’io. Ma certo, direte voi, tutto è bene quel che eccetera. Macché.

Gmail, se gli do la mia casella di posta e la di essa password, mi dice che io mica accedo da qui, di solito, e che quindi mi manda un codice di verifica sul telefono. Ci sono varie opzioni alternative: nessuna è “il telefono me l’hanno rubato”. Qualunque opzione alternativa schiacci, essa mi conduce a “ti stiamo mandando un codice di verifica sul Blackberry”. Ah, grazie, ora chiedo al ladro di girarmi lui tutto.

Capisco la necessità di difendere i titolari di caselle mail da malviventi improvvisati che pensano di poter arrotondare vendendo foto che hanno rubato dalla posta altrui, ma in questo momento sono più sensibile alla mia necessità d’accedere alla mia posta quando mi rubano il telefono, necessità che oltretutto sospetto sia più frequente: com’è possibile che Google, l’algoritmo che governa il mondo, sia così stupido da non averla prevista?

Torno verso il commissariato. Loro sono tutti fuori a fumare, in compagnia d’una barista; io sono praticamente in lacrime, ma non è questo a risolvere la situazione bensì il quarto poliziotto, quello adulto. Mentre la barista ci interrompe con utilissimi «io lo so come si fa il greenpass, bisogna essere vaccinati», lui mi svela la soluzione: in piazza c’è una farmacia, credo che coi suoi dati possano risalire al greenpass e stamparglielo.

Perché non sapevo questa cosa?! Perché nessuno ci ripete questa preziosa informazione con la frequenza con cui ci dicono di lavarci le mani?

Corro, sudando pessimismo. Cos’altro succederà. La farmacista me lo stampa in meno d’un minuto, la corsa che già ritenevo disperata verso il Genova-Milano si conclude con me che salgo sul treno che partiva tre minuti più tardi di quanto mi ricordassi (avrei saputo l’ora giusta, se avessi potuto controllare il biglietto sul telefono, ma non so se v’ho detto che mi trovo senza telefono).

Poliziotto coi capelli grigi, se non c’eri tu mi toccava prender casa a Genova, spero che la barista ti ringrazi calorosamente da parte mia.

Tutto è bene quel che poteva finire peggio. Sul biglietto c’è il mio numero di Cartafreccia, il controllore cui chiedo se da quello può risalire al mio numero di posto mi guarda inizialmente come i poliziotti giovani, ma poi sì, si può fare.

Ho un posto a sedere, ho una certificazione verde, ho persino un iPad dal quale scrivere delle sorti del mondo per Linkiesta. Oddio, però non ho idea di quale sia il mio albergo a Mestre, di chi mi venga a prendere e dove, dell’orario della presentazione sono tutte cose che ora sa il ladro ma non io. La signora che controlla i biglietti sul Milano-Mestre però ha un telefono: cerca il numero degli uffici del festival a Mestre, me li fa chiamare, è grazie a lei se scopro cosa c’è nel mio carnet di ballo domenicale.

Perdere il telefono ti fa diventare come Blanche DuBois. No, non intendo “pazza” – oddio, sì, anche, ma soprattutto: una che deve far conto sulla gentilezza degli estranei. (Comunque ora vado a comprare un’agenda di carta: quella mica me la ruberanno).

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