Qui ride luiLetta e il suo schema semplice, troppo semplice, per battere la destra estrema

Alla Festa dell’Unità il segretario del Pd ha escluso l’ipotesi di spingere Draghi verso il Quirinale e ha detto che il tripolarismo è finito

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Qui rido io, vi spiego cosa ho in testa: siamo di nuovo nel bipolarismo sinistra contro destra, tertium non datur, terze posizioni non hanno senso. Preparatevi, dunque, compagne e compagni. Ecco, ieri Enrico Letta ha detto la sua in quel di Bologna, chiudendo la Festa nazionale dell’Unità, una Festa “forte”, riuscita – hanno detto gli organizzatori – molto accesa sui temi identitari. E il segretario ha dato la carica.

Qui rido io, come il titolo del film di Mario Martone. Vi spiego come funziona. Ecco lo schema lettiano: siamo in una fase nuova, è finito il «tripolarismo del 2013» ma questo non significa che si stia ritornando  al “vecchio” bipolarismo perché la destra di oggi non è più quella di Silvio Berlusconi ma quella degli amici di Viktor Orbán: è «destra estrema». E dunque (qui rido io) il gioco è fatto: bisogna costruire «attorno a noi» una coalizione in grado di battere gli orbaniani (con un pezzo dei quali, la Lega, il Pd sta governando, ma appare chiaro che si tratta di una fase particolare). C’è evidentemente in questa analisi il Letta più conseguentemente prodiano, quello che si ricollega alla stagione ulivista ma con meno voglia di riconoscere la natura democratica dell’avversario e in questo senso lo schema è quello del blocco contro blocco senza peraltro particolare attenzione a come si potrà declinare, a come si potrà costruire il suo, di blocco.

In questo schema generale, la notizia è il ribadimento della necessità che il governo Draghi vada avanti fino alla fine della legislatura: Letta non ha ripetuto ieri quell’avverbio – «almeno fino al 2023» – che aveva fatto sperare quanti, anche nel Pd, lavorano a che il partito di Letta possa in qualche modo incarnare i programmi e il messaggio riformista dell’attuale inquilino di palazzo Chigi. Ma almeno, è il caso di dire, con la frase di ieri il segretario dem ha escluso l’ipotesi che Draghi sloggi da dove si trova ora per trasferirsi al Quirinale: tutto può cambiare, ovvio, ma perlomeno è chiaro il punto di partenza. Il Pd – lo si è capito anche dall’interminabile applauso tributato a Sergio Mattarella – sarebbe per il bis di quest’ultimo. Altrimenti – ma questo Letta non lo ha detto, lui che nei giorni scorsi ha invitato a una moratoria sul toto-Quirinale – bisognerà per forza scegliere altri nomi.

Ritornando allo schema lettiano, è evidente che il segretario ha buon gioco nel fissare dalle imminenti amministrative il punto di partenza che condurrà allo scontro finale sinistra-destra, anche perché sa bene che le aspettative sul voto del 4 ottobre sono molto alte, e certo non solo a Bologna ma anche a Milano e Napoli e nel collegio di Siena che si appresta lui stesso a conquistare. Un trampolino per costruire nei fatti una lunghissima campagna elettorale (sempre che Roma non tradisca…).

Il bello è che Letta non ha detto una parola sulla discesa agli inferi (politici) di quel M5s inseguito e accarezzato per due anni prima di trovarselo smunto e ansimante e dunque tutt’altro che decisivo per una vittoria elettorale alle politiche: e allora dove e come e quando aprire nuovi cantieri e cercare altri alleati? Su questo, silenzio totale. Tranne la solita fiducia riposta nelle ancora misteriose Agorà che dovrebbero, nei piani di Letta, irrorare di idee il suo partito e cementare grumi di unità «nella società», che vuol dire tutto e niente.

Bella accoglienza della sua gente per il primo discorso di chiusura di Letta a una Festa nazionale dell’Unità, comunque. Qui rido io, è il segretario ieri era molto soddisfatto. Il suo schema è semplice. Forse troppo.

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