Oggi alle 18 presso il Centro Brera (Via Formentini 10) Linkiesta presenta il nuovo libro di Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi, “La società chiusa in casa. La libertà dei moderni dopo la pandemia”(Marsilio). Con gli autori, intervengono Francesca Pasinelli (DG, Fondazione Telethon), Alberto Zangrillo (Ordinario di anestesiologia e rianimazione, Università Vita-Salute San Raffaele) e Nicolò Zanon (giudice della Corte costituzionale). Modera Sergio Scalpelli.
Distinguere i mezzi dai fini, in politica, è più complicato di quanto sembri. Le persone ragionevoli non possono non convenire sulla necessità di vaccinare contro il Covid-19 quante più persone possibile.
Perché, così tante persone persistono nell’irragionevolezza, malgrado i numeri dicano che vaccinarsi è infinitamente meno rischioso che ammalarsi di Covid-19 (secondo il database UK i vaccini hanno impedito 25 milioni di infezioni e oltre 100mila morti, a fronte di quattro o cinque casi di disturbi lievi ogni 1.000 dosi)?
La spiegazione è che la nostra percezione spontanea dei rischi risale – ebbene sì – a quando eravamo cacciatori-raccoglitori ed era vantaggioso sovrastimare rischi poco probabili (per esempio, oggi i danni da vaccino o un incidente aereo) e sottostimare quelli molto probabili (per esempio, ammalarsi di Covid-19 o un incidente automobilistico).
Il fatto è che non viviamo più nel Pleistocene, ma in società moderne e complesse in cui, grazie alla scienza e alla medicina, siamo in grado di calcolare oggettivamente benché probabilisticamente i rischi e quindi possiamo agire razionalmente. Anche per questo motivo non è facile convincere le persone che su questo bias cognitivo innato si innestano una pletora di autoinganni che includono paranoie cospirative e diverse strategie per proteggere nella loro psicologia un scelta dogmatica.
Il green pass è stato pensato come strumento per indurre le persone a fare la scelta più razionale. È stato introdotto prima in un Paese, la Francia, che ha, storicamente, un’opinione pubblica in larga misura scettica rispetto ai vaccini: un fenomeno culturale iniziato in qualche modo già a fine Ottocento, quando Louis Pasteur era oggetto di critiche da parte degli animalisti; e malgrado la scienza francese sia stata durante il Novecento ai vertici internazionali, il filosofo Gaston Bachelard negli anni Cinquanta scriveva che nel suo Paese la scienza «non ha la filosofia che merita», in quanto gli intellettuali si nutrono di preconcetti che sono «il loro rifugio notturno». Psicoanalisi, fenomenologia, esistenzialismo, strutturalismo, post-modernismo, eccetera, non hanno certo aiutato la formazione nell’Esagono di generazioni dotate di pensiero critico. Le provocazioni anglosassoni, come il caso Wakefield, hanno fatto il resto.
Emmanuel Macron, però, centra l’obiettivo: partendo da un tasso di prenotazioni molto basso, riesce nel giro di poco più di un mese a risalire la china. In Italia la campagna di vaccinazione stava già andando sorprendentemente bene e l’impatto è stato modesto: ha dato probabilmente una “spinta” ai più giovani ma non ha, sostanzialmente, accelerato il processo. Purtroppo, ha anche dato visibilità e fornito argomenti alla mentalità complottista, con l’effetto paradossale di trasformare qualche esitante alla vaccinazione in un no vax ideologico, mentre sarebbe stato auspicabile il contrario.
In una pandemia, le decisioni dei governi sono tutte in qualche misura delle “reazioni” a ciò che sta avvenendo a livello di virus e contagi. In Italia i contagi sono in calo, già da fine agosto in alcune regioni. Qualcuno può ricondurne il merito al green pass, ma più semplicemente il merito va ascritto al complesso di circostanze favorevoli (la bella stagione e la vita all’aria aperta) con il processo di vaccinazione. In questo quadro, il governo si è scapicollato a estendere il green pass, nel timore di un peggioramento del dato dei contagi con l’apertura delle scuole (per ora, non ce n’è segnale) e con la brutta stagione. Le cose andranno veramente così? L’alta diffusione delle vaccinazioni dovrebbe indurci in primo luogo a comprendere che i contagi da SARS-CoV-2 quest’anno sono cosa ben diversa da quelli dello scorso anno. Minori le probabilità che finiscano in una ospedalizzazione, verosimilmente ancora più concentrati solo in alcuni segmenti della popolazione.
C’era davvero bisogno, dunque, di estendere il green pass fino agli ultimi provvedimenti, che lo vedono richiesto anche per accedere alle piste da sci (non proprio il luogo al chiuso nel quale è più facile contrarre l’infezione)?
Il green pass sul luogo di lavoro è un effetto perverso del fatto che l’Inail qualifichi come incidente sul lavoro l’eventuale contagio da Covid. Non corrisponde dunque all’obiettivo generale di accrescere la partecipazione alla campagna vaccinale. Ma ci siamo ritrovati su una specie di piano inclinato, per cui esigere il green pass “ovunque possibile” è diventato un bene in sé e non uno strumento con uno specifico fine.
Come già abbiamo detto, in una pandemia navighiamo a vista e per questo bisogna essere pronti a correzioni di rotta. È opportuno chiedersi quanto sia efficace l’applicazione del green pass e se non sia di nuovo una misura “segnaletica”, un tentativo di ricordare a un Paese che i suoi stessi governanti considerano un po’ “disubbidiente” che la pandemia continua e dobbiamo prestare attenzione. Per anni si è molto discusso della valutazione degli impatti delle norme, che producono benefici ma hanno inevitabilmente anche dei costi. Questa valutazione dovrebbe essere tanto più attenta quando parliamo di misure, come questa, che non si introducono per un obiettivo di lungo termine ma invece per venire alle prese con le circostanze.
Lo scopo del Green Pass è accrescere il numero di vaccinati, anche se qualche membro del governo ogni tanto genera confusione dicendo che sono una misura per rendere più sicuri gli spazi della socialità. Dovrebbe pertanto essere chiaro a tutti che si tratta di uno strumento “a tempo”, non di un nuovo documento al quale finiremo per abituarci. Siccome lo scopo è quello, se lo si estende ai luoghi di lavoro, non necessariamente ha senso mantenerlo per bar e ristoranti.
Bisognerebbe ragionare laicamente su come ha funzionato sin qui, e sulle tante falle evidenti in un provvedimento confezionato sotto la dettatura della fretta. Perché i vaccinati con doppia dose, quando esibiscono il green pass per esempio per viaggiare, vengono poi anche inseriti nei processi di tracciamento? Perché non sono esclusi dalla quarantena, come accade in altri Paesi, in caso di contatto con un positivo o al rientro da Paesi che non fanno parte dell’Unione europea? Cinema e teatri devono richiedere il green pass ai loro clienti. Con tutta probabilità le persone che desideravano tornare a viaggiare, al cinema e a teatro sono le prime a essersi fatte vaccinare e dunque impieghiamo risorse per fare un controllo pleonastico. Perché allora non consentire tassi di riempimento più elevati delle sale?
E come mai ciò che è consentito sui treni non lo è nei cinema? Che effetto ha, sull’insegnamento universitario, la coesistenza di green pass e aule a capienza ridotta e sedute distanziate, con la necessità di sdoppiare i corsi e continuare a garantire la fruizione degli stessi in modalità “mista” (cioè: né carne né pesce)? Ha senso che la presenza di un positivo, se tutti gli altri sono vaccinati, porti alla sospensione dell’attività “in presenza” (terribile neologismo) nelle scuole?
Un minore non può vaccinarsi fino al giorno del suo dodicesimo compleanno. Ma la sera di quello stesso giorno non può andare in piscina, perché non ha il green pass da esibire, e non potrà farlo a meno di non continuare a sottoporsi a tamponi, fino alla conclusione del ciclo vaccinale. Ha senso non prevedere una forma di gradualità?
Le “zone a colori” sono state spesso oggetto di attacchi polemici ma sono state un bagno di realtà: la circolazione del virus avviene sul territorio e misure uguali per tutti non hanno molto senso. Questo riguarda però anche la vaccinazione. La Lombardia, dove fortunatamente gli errori e le goffaggini nella gestione della pandemia sono ormai soltanto un ricordo, ha raggiunto il target dell’80 per cento della popolazione vaccinato con doppia dose. Se il green pass serve a incentivare le vaccinazioni, ha senso che le modalità di applicazione siano le medesime, indipendentemente dal numero di vaccinati?
Altri governi (pure attentissimi al ruolo delle evidenze, come quello danese) stanno andando nella direzione opposta rispetto a quello italiano: cioè verso un assetto senza green pass, una volta raggiunta una certa soglia di vaccinati. Questo anche perché altrove, a fronte di una elevata percentuale di vaccinati, si intende dare priorità alla somministrazione della terza dose a fragili e immunodepressi, anziché inseguire l’obiettivo di “vaccinazione totale” della popolazione. Qualcuno che non vorrà fare il vaccino ci sarà sempre.
L’impressione è che stiamo tarando norme e provvedimenti proprio su questa minoranza che, complice anche l’attenzione esagerata dei media, è diventata, suo malgrado, il centro della discussione pubblica. Pragmaticamente, se l’obiettivo è “spingere” alla vaccinazione un certo numero di persone, il green pass dovrebbe essere ritirato una volta raggiunto quell’obiettivo. E, nel mentre, la sua applicazione dovrebbe essere dinamica e non immune a correzioni di rotta. Se lo chiediamo a chiunque si rechi sul luogo di lavoro, probabilmente si può smettere di domandarlo a chi va al ristorante almeno durante la pausa pranzo, a meno che qualcuno non abbia evidenza (ma ne dubitiamo) che i ristoranti durante la pausa pranzo siano in realtà frequentati soprattutto da pensionati. Che senso ha chiederlo sulle piste da sci? Esiste davvero un cospicuo numero di individui che non fa parte della popolazione attiva, non esce mai a cena e non frequenta cinema e teatro – tutte occasioni nelle quali il certificato verde gli sarebbe chiesto ben prima dell’inizio della stagione turistica?
È una malsana interpretazione dell’idea che la legge debba essere uguale per tutti pensare che un dispositivo come il green pass debba tradursi in eguali obblighi per qualsiasi attività economica. A meno di non pensare, sotto sotto, che l’abitudine a richiederlo, soprattutto lontano dai grandi centri, svanirà presto e dunque in qualche modo spariamo nel mucchio nella speranza di avere qualche effetto. Un facite ammuina costoso e illiberale.