Le epidemie e le pandemie sono fenomeni sanitari. Il loro andamento è in parte legato a quello che, cammin facendo, comprendiamo essere il modo di comportarsi dei microparassiti che le causano. Ma è anche determinato dalle forme organizzative delle società umane nelle quali l’agente patogeno si stabilisce e colpisce, facendo ammalare o uccidendo più o meno persone con maggiore o minore rapidità. Questi effetti non dipendono solo dai gradi di avvicinamento e distanziamento tra le persone – ma anche dalla ramificazione delle misure sanitarie, dall’adesione dei singoli alle misure di controllo e profilassi, dai pregiudizi sociali diffusi, dalla credibilità delle istituzioni, dalla demografia di una società che dipende spesso dalla sua capacità di generare ricchezza. Tutte queste cose non restano necessariamente “costanti” durante un fenomeno epidemico. Possono cambiare, sia rispetto ai comportamenti individuali, sia rispetto alle aspettative generate dalle istituzioni pubbliche. Noi non siamo, checché pensino fisici e ingegneri che hanno inventato i modelli di maggior successo, palle da particelle di gas ideale, palle da biliardo. In questa pandemia, molti hanno giocato a produrre “modelli” deterministici, con notevole influenza sulle scelte pubbliche. Il problema di quei modelli è lo stesso che aveva già individuato Adam Smith rispetto agli uomini «con spirito di sistema»: immaginano che gli individui siano come pedine sulla scacchiera, ma trascurano il fatto che, a differenza che agli scacchi, nelle società umane ciascun pezzo segue il proprio principio di moto.
Questo è il succo dei problemi di quella che spesso piace chiamare “complessità”.
Chi dovrebbe occuparsene? Le scienze sociali. Qualcuno le ha viste chiamate in causa o consultate governi, politici e soprattutto chiamati a far parte comitati tecnico-scientifici, che sono stati allestiti chiamando praticamente solo medici, virologi, igienisti, infettivologi, epidemiologi, statistici, etc? Gli scienziati che hanno fatto parte di questi comitati sono certamente persone notevoli nel loro campo, ma quando parlano dei comportamenti umani implicati nella trasmissione dell’infezione o nella renitenza verso il vaccino non dicono cose troppo diverse da opinioni che si ascoltano dal barbiere in attesa del proprio turno.
Purtroppo questo è molto spesso vero anche dei cosiddetti scienziati sociali, molti dei quali sono sostanzialmente occupati a “vestire” con broccati sfarzosi idee di senso comune e, soprattutto, pensieri volti sostanzialmente a un unico fine: ovvero accrescere il peso delle istituzioni pubbliche nella società. Questo è stato vero anche nella pandemia. Il fatto che molti scienziati sociali siano politici parcheggiati all’università in attesa che si liberi un posto in Parlamento non basta però a fare diventare irrilevanti le loro discipline. Soprattutto se ciò che deve essere studiato non è solo il comportamento del virus: ma l’interazione fra il virus e i gruppi di esseri umani.
È chiaro che la pandemia ha stimolato un diluvio di ricerche, sollecitate dalla forte urgenza di trovare soluzione ai problemi. Il virus e i suoi effetti sono cause impreviste e non controllate, ma che provocano cambiamenti e quindi si possono studiare diversi “esperimenti naturali”: quando mai sociologi e psicologi o antropologi potrebbero chiudere in casa militarmente milioni e milioni di persone per studiarne le reazioni, obbligare a calzare mascherine che impediscono di accedere alle espressioni facciali, osservare delle discriminazioni in atto tra persone con e senza green pass, etc. La quantità di studi prodotti è stata ingente e l’UNESCO ha organizzato per il 21 e 22 ottobre un simposio intitolato “Social Sciences and the COVID-19 Pandemic: State of Knowledge and Proposals for Action” sull’uso della ricerca nelle scienza sociali nella gestione della crisi sanitaria.
Su un punto dobbiamo esser chiari: il pregio dei migliori fra questi contributi non è quello di disegnare specifiche public policy, ovvero servire da consiglieri del Principe. È invece quello di guardare alle dinamiche in corso cercando di comprendere quali fenomeni hanno innescato, al di là dell’aspetto epidemiologico e immunologico.
Come cambiano i comportamenti delle persone vaccinate? Che cosa influenza davvero le impressionanti differenze tra paesi diversi o tra regioni diverse in uno stesso paese nell’adesione o nell’esitazione verso le vaccinazioni? Quali sono i gruppi sociali che più sostengono un certo genere di politica pubblica ovvero un’altro? In che misura effettivamente i governi hanno sostenuto un rafforzamento dei loro sistemi sanitari? Lo hanno fatto di più i Paesi “chiusisti” o quelli “aperturisti”? Questi ultimi lo sono stati davvero e fino in fondo, come fa immaginare una certa narrazione pubblica, o al contrario hanno visto le persone adattare spontaneamente i propri comportamenti? “Aperturismo” e “chiusismo” sono correlati ad altre scelte pubbliche, per esempio in termini di corretta e puntuale informazione? Quali sono gli effetti che sortiscono sulle preferenze politiche delle persone o, al contrario, come sono da esse legittimate? In che modo la logica economica e regolatoria che ha portato alla commercializzazione di vaccini innovativi in meno di un anno può essere un modello per il sistema di sviluppo dei farmaci?
Tutte queste sono domande, neppure le più complesse, che la pandemia in corso suscita e che possono trovare risposta solo attraverso gli strumenti delle scienze sociali. Sono questioni importanti, perché da esse dipende il modo in cui evolveranno le nostre società: l’impronta che lascerà il Covid. Andrebbero considerate attentamente dai governi, se non vogliono affogare nei problemi di breve periodo.
Negli ultimi decenni le scienze evoluzionistiche, le neuroscienze e la computer science hanno consentito di pensare e testare modelli del comportamento umano più verosimili e così gli approcci sperimentali e quantitativi hanno consentito alle scienze sociali passi avanti. Queste migliori approssimazioni nella comprensione del comportamento umano suggeriscono cautela e prudenza, nel disegnare politiche sulla base di modelli stilizzati della società. Ci restituiscono, in un certo senso, le difficoltà di operare in una rete di relazioni complesse, dove le conseguenze delle azioni non sono sempre o solo quelle immaginate. La società è più una jam session che uno spartito rifinito in ogni dettaglio e il legislatore deve tenerne conto.
Una maggiore attenzione per le acquisizioni conoscitive delle scienze sociali fondate sulle scienze cognitive aiuterebbe a sostituire la dannosa credenza, diffusa purtroppo tra gli scienziati, che se per trovare una misura medica efficace servono prove (ma qualcuno continua a credere di no anche Italia), per affrontare problemi sociali sia sufficiente far ricorso a buone intenzioni o fare appello alle manifestazioni ideologiche di intuizioni o impulsi. Per provare a migliorare la società, bisogna prima provare a comprenderla, indipendentemente dalle nostre preferenze e, per quanto possibile, dai nostri pregiudizi.
È da oggi in libreria “La società chiusa in casa. La libertà dei moderni dopo la pandemia” di Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi. Gli autori, che collaborano con Linkiesta, presenteranno il libro lunedì alle 18, presso il Centro Brera (Via Formentini 10, Milano), con Francesca Pasinelli, Alberto Zangrillo e Nicolò Zanon. Modera Sergio Scalpelli.