«Quando pensiamo al termine inclusività, lo pensiamo sempre in termini materiali, mai a quei beni immateriali che sono la partecipazione ad attività culturali e sociali. Che alimentano lo spirito e fanno sentire parte di qualcosa. Credo che una città debba iniziare a riflettere anche su questa dimensione».
Achille Saletti, sociologo, presidente di Saman, storica realtà di recupero dalle dipendenze della città, non ha dubbi sulla bontà del percorso di sviluppo di Milano, ma rileva la quasi totale assenza dal dibattito politico di progetti di integrazione culturale, oltre che urbana. L’immigrazione regolare, ma anche la riqualificazione abitativa dei quartieri, hanno inevitabilmente imposto un cambio di identità, che non può che passare dal fattore culturale.
Cosa manca a Milano oggi?
«L’accelerazione della dimensione metropolitana che Milano ha avuto, ha e vuole avere, se modellata in un certo modo diventa certamente terreno favorevole, perché Milano è una città molto effervescente e tutti i progetti di grande riqualificazione sono molto belli. Ma deve esserci un pensiero compiuto su chi appartiene alle fasce di reddito più svantaggiate. Io posso andare a un reading di poesia con aperitivo, però l’aperitivo mi costa 12 euro, e se non ho soldi…
Anche sullo sport: mi domanderei se Milano è una città che promuove non tanto lo sport tra le fasce sociali più introdotte, ma tra gli adolescenti. Milano è una città straordinaria, però una riflessione pubblica su questi aspetti che sono legati a una solitudine relazionale – che può portante anche a forme di sofferenza psichica – manca.
Curiosamente, però, la retorica dell’opposizione politica insiste su altro. Su questioni più impattanti, più d’emergenza, come la sicurezza, la denuncia di periferie definite in mano alla criminalità, la necessità di più forze dell’ordine . L’impressione è che sia una semplificazione che lascia scoperti i bisogni veri.
La destra non può attaccare la cosiddetta movida, allora fa questo salto logico per cui Milano sembra essere una città insicura, cosa che non è assolutamente vera. Perché è una città tra le più sicure in Europa. La destra racconta l’immigrazione come elemento di destabilizzazione, ma a Milano i dati sui migranti dicono che sono persone che hanno trovato nella città la loro opportunità.
Il fatto è che non avendo la destra un’idea della città da tempo, non può che ricorrere al vecchio repertorio. In realtà via Padova, per dirne una, fa parte di Nolo, uno dei tanti quartieri in riqualificazione, dove gli elementi perturbanti sono molti meno di un tempo. Una zona destinata a diventare il nuovo quartiere Isola, per capirci.
A questo punto, però, c’è da chiedersi quale sia l’errore nella visione della Milano degli ultimi cinque-dieci anni. C’è una città oggettivamente proiettata in avanti, europea, aperta, ma con il problema di una marginalità che sembra sfuggire a tutti gli interventi.
C’è un percorso che Milano dimostra di essere perfettamente in grado di compiere. Milano è una città complessa, nel senso della moltitudine degli attori della vita sociale. Prendiamo la questione abitativa, che è fondamentale. C’è una fascia di cittadinanza che ha reddito appena sopra i parametri per accedere all’edilizia popolare, ma sotto le possibilità per sostenere i costi di mercato.
Una situazione che può produrre una pericolosa marginalità. È stato licenziato a fine luglio un progetto unico, i cui soggetti sono un’espressione di Fondazione Cariplo, di Cassa depositi e prestiti e di società collegate di finanza etica, con la regia del comune. Nell’area dell’ex-macello verranno realizzati 1200 appartamenti destinati all’housing sociale con prezzi calmierati.
Il pubblico ha messo i paletti entro i quali muoversi e il privato in questo caso sta facendo meglio di quello che potrebbe fare il pubblico, sia per la velocità dei tempi decisionali sia per i progetti che saranno consegnati il prima possibile. Milano sa dotarsi di strumenti straordinari e la contrapposizione pubblico vs. privato è un concetto davvero superato.
La domanda, a questo punto, è però se questa visione basterà a ridurre la marginalità, e ancora prima quali e quanto profondi siano i segni lasciati fino a qui. I fatti di cronaca sembrano dirci che i fenomeni di disagio riguardino fasce di età sempre più basse, come se ci fosse un vuoto appena fuori dalla famiglia e dalle scuola. Gli atti di teppismo, di piccola criminalità hanno protagonisti adolescenti. Una condizione preoccupante anche in prospettiva: sono le generazioni che dovranno “riempire” la nuova città.
A Milano i giovani che si rivolgono a noi sono soggetti completamente destrutturati. Deficitari perfino sul piano cognitivo. Non hanno avuto alcun tipo di appiglio, di comunità attorno a loro capace di arginarli. Anche riguardo le sostanze, è cambiato completamente l’uso: è diventato anche curativo, di un disagio profondo. Quando pensiamo nuovi quartieri, dobbiamo pensare anche strutture per la salute mentale.
C’è un vuoto di identità, che secondo me oggi dovrebbe essere trasversale, culturale. Ma qui si apre un altro capitolo, perché quando il pubblico è in difficoltà economica il primo taglio che fa è sulla cultura.
Se vai a chiedere ai diretti interessati, del resto, sono certo che risponderebbero che a colazione non metti in tavola latte e cultura.
Certo, ma le formule per avere entrambi ci sono. Immaginiamo ad esempio, insieme ai sussidi economici, agli ammortizzatori sociali, la possibilità di accedere gratuitamente a tutte le manifestazioni culturali della città. Chi è ai margini del Pil, non può esser lasciato anche ai margini di tutto il resto. In Germania, provvedimenti simili si prendono già e danno ottimi risultati di partecipazione alla vita sociale.