Fantasmi balcaniciGli scontri religiosi in Montenegro riaccendono la tensione con la Serbia

A Cetinje, sede della Chiesa ortodossa montenegrina, ci sono stati disordini per l’insediamento di un nuovo vescovo della controparte serba. L’episodio, denunciato dal premier Krivokapić, è un chiaro atto di forza che riflette la spaccatura nel paese

AP Photo/Risto Bozovic

Per incendiare un intero paese basta un nuovo vescovo. Cetinje, capitale medievale del Montenegro, è tornata al centro dell’attenzione a causa degli scontri tra polizia e manifestanti per l’insediamento del nuovo vescovo metropolita della Chiesa ortodossa serba, Joanikije II.

Sessanta feriti tra civili e militari e quattordici arresti hanno segnato una due giorni di fuoco largamente annunciata nel piccolo paese balcanico, che rischia di rappresentare un precedente pericoloso per l’intera regione.

«La Chiesa ortodossa serba è ancora oggi un simbolo per molte minoranze in giro per la regione e quanto successo a Cetinje può essere un esempio per altri episodi simili, magari in Kosovo», dichiara a Linkiesta Giorgio Fruscione, analista dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale).

Il fatto
Quanto successo non ha rappresentato una sorpresa per nessuno: era infatti noto a tutti, sia alla Chiesa ortodossa serba che al governo, che l’opposizione si sarebbe radunata per protestare. Il 15 agosto, in un editoriale sul giornale montenegrino Pobjeda, Veselin Veljovic, consigliere per la sicurezza del presidente della Repubblica e leader del Partito democratico dei socialisti (Dps), Milo Đukanović, aveva già incitato i cittadini alla rivolta sostenendo che il governo del primo ministro Zdravko Krivokapić, leader del movimento conservatore “Per il futuro del Montenegro”, «fosse un ostaggio e un seguace indiscusso della Chiesa ortodossa serba, grazie alla quale oggi governa».

Oggi in Montenegro sono presenti due Chiese ortodosse nazionali: quella serba, presente da tempo nel paese e rimasta anche dopo l’indipendenza del 2006, e quella montenegrina, non riconosciuta dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli e considerata scismatica dal patriarca di Belgrado.

Alla prima appartengono alcune delle proprietà ecclesiastiche più importanti del paese, come il monastero di San Basilio, dedicato al santo più venerato del paese, che la Chiesa montenegrina reclama come sue. «Organizzare una cerimonia di intronizzazione proprio a Cetinje, luogo simbolo del Montenegro e sede anche della Chiesa ortodossa montenegrina, è stato un chiaro atto di forza dei serbi-ortodossi, avvallato per giunta dal governo di Krivokapić», sostiene Fruscione.

Ad essere finito nel mirino dei dimostranti è soprattutto il metodo con cui Joanikije II ha preso il posto di Amfilohije, morto nell’ottobre 2020 a causa dell’epidemia di Covid: l’elezione prevede infatti il voto di 2 vescovi serbi, due bosniaci e dal patriarca di Belgrado Porfirije.

Non è prevista la presenza di vescovi montenegrini, un atto visto dai manifestanti scesi in piazza come una sorta di sopruso da parte di Belgrado, che tenta così di intromettersi in ogni modo nelle faccende di Podgorica.

Per questa ragione, sia il patriarca che il nuovo vescovo metropolita di Cetinje sono dovuti arrivare domenica a bordo di un elicottero militare muniti di coperta in kevlar antiproiettile, mentre all’esterno del monastero di San Basilio la polizia lanciava i lacrimogeni per disperdere i manifestanti, accampati già dalla sera prima, quando avevano sfondato le barriere della polizia gridando slogan come «Questa non è la Serbia!» e «Viva il Montenegro!».

La politica
«Sono attacchi terroristici, è inaccettabile quanto successo a Cetinje», ha dichiarato il premier Krivokapić accusando il Dps, che ha governato ininterrottamente il Montenegro dal 1990 al 2020, di essere causa degli scontri.

Leader del partito d’opposizione è proprio Đukanović, che infatti ha attaccato il governo e i serbi. «Questa è la fine del rispetto che la Chiesa ortodossa di Belgrado ha goduto finora sia nella capitale montenegrina che nel nostro paese. Il governo ha assicurato l’intronizzazione violenta del metropolita contro la volontà della stragrande maggioranza dei cittadini di Cetinje e di un numero significativo di cittadini del Montenegro».

Un vero e proprio cortocircuito politico che riflette la sostanziale divisione presente all’interno del paese. Oggi in Montenegro il 30% della popolazione circa si sente serbo, contro il 45% che invece si percepisce come montenegrino. «Da qui derivano tanto le divisioni religiose quanto quelle politiche. Grazie all’appoggio della Chiesa ortodossa di Belgrado, “Futuro per il Montenegro” è riuscita a vincere le elezioni del 2020, mettendo fine al dominio dei socialisti», evidenzia Fruscione.

A far scendere in campo il vescovado di Cetinje è stata una legge approvata nel dicembre del 2019 dal governo dell’ex primo ministro Duško Marković, appartenente al Dps, che prevedeva l’obbligo per le comunità religiose di dimostrare di essere legittimamente in possesso dei propri beni immobili da prima del 1918, per evitare l’esproprio da parte dello Stato. Un provvedimento visto da migliaia di serbi come un tentativo di minare la loro libertà religiosa: la loro protesta, inizialmente presente in strada, dove si esibivano con icone religiose e croci al collo, si è poi spostata nelle urne, dove sono stati premiati i partiti filoserbi.

«Il sostegno di Belgrado, però, non va sottovalutato: l’anno prossimo ci saranno le elezioni presidenziali in Serbia e il risultato di Vucic influenzerà molto quello che succederà a Podgorica: non è da escludere uno scioglimento anticipato dell’Assemblea del Montenegro e un nuovo voto», evidenzia Fruscione.

In ogni caso è destinata ancora a recitare un ruolo importante la Chiesa ortodossa serba, un baluardo importante del carattere nazionale sia in patria che all’estero. Presente in tutto il mondo ma molto forte soprattutto nei Balcani, la si trova in ogni paese dove sono presenti comunità, da Trieste, dove c’è il tempio ortodosso della Santissima Trinità e di San Spiridione, in giù. In alcuni casi la sua presenza è simbolica, in altri un punto di riferimento fondamentale per la minoranza presente.

Il punto di vista di Belgrado
In questa storia il convitato di pietra è sicuramente la Serbia. «Noi non vogliamo sottomettere nessuno, ma non consentiremo a nessuno di sottometterci», è stato il commento del presidente della Repubblica serbo Aleksandar Vucic, che ha sottolineato come quanto fatto da Đukanović non sia stato stigmatizzato da nessuno.

«Potete immaginare se fossi stato io a fare quello che ha fatto il presidente montenegrino: in pochi secondi sarei messo in croce a Bruxelles e a Washington». I serbi sono visti come un elemento di turbativa nella regione, ma spesso sono loro i primi artefici.

«Dal giorno dell’indipendenza il governo serbo e quello montenegrino si sono incontrati una sola volta e questo già dice molto dello stato dei rapporti tra Belgrado e Podgorica. Belgrado intrattiene rapporti decisamente più saldi con le altre comunità serbe in giro per l’ex Jugoslavia: un modo per affermare la supremazia nel “mondo serbo”, nota un tempo come Grande Serbia, e certificare lo status di Vucic a livello interno e internazionale», sostiene Fruscione.

Le elezioni presidenziali si terranno il prossimo anno e Vucic è ovviamente in campo, con il ruolo di grande favorito. «Per questo il presidente serbo ci tiene molto a mostrarsi come un interlocutore affidabile per Europa e Stati Uniti nella regione e allo stesso tempo a rimarcare il proprio ruolo di difensore del carattere nazionale rispetto all’opposizione», rimarca Fruscione.

Non è un caso, infatti, la presenza costante in tutti gli incontri di Vucic, sia nazionali che internazionali, di Milorad Dodik, membro serbo della presidenza della Bosnia-Erzegovina ed ex presidente della Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina.

«La mossa serve a rassicurare tutta la comunità serba, specie in un momento in cui si sente ancora minacciata per l’indipendenza del Kosovo», sottolinea l’analista dell’Ispi. Autoproclamatosi indipendente nel 2008 e attualmente riconosciuto da oltre 100 Stati Onu (di cui 22 di 27 Stati Ue), Pristina vive una situazione di stallo con Belgrado, che ancora oggi la considera parte del suo territorio.

E proprio alla Serbia e alla sua Chiesa ortodossa appartengono alcuni dei suoi beni religiosi più conosciuti, come i monasteri di Dečani e Gračanica, quello patriarcale di Peć e la chiesa di Bogorodica Ljeviška a Prizren, considerati patrimonio dell’umanità di Belgrado in quanto il Kosovo non è ancora riconosciuto come Stato dall’Unesco.

«Per questo nel momento in cui dovesse avvenire il riconoscimento le comunità serbe dell’area potrebbero percepire un senso di accerchiamento, con la possibilità che si ripeta lo schema già visto in Montenegro», conclude Fruscione. Una possibilità che, in fondo, non dispiacerebbe a Belgrado.

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