Nascita dell’inquisitoreCosì l’«Io so» di Pasolini è diventato una macchietta al servizio dei giustizialisti

Nell’ultima stagione italiana, tra la riscrittura di Saviano e quella di Ingroia, la celebre formula di PPP, nata con segreto umorismo, è diventata uno degli stilemi più frequentati della parrhesia nazionale. Ma, come spiega Guido Vitiello in questo studio, è degno di nota (se non di allarme) che la voce di un poeta sia diventata, di passaparola in passaparola, la voce di un pubblico ministero

©Publifoto/Lapresse 5-03-1963

Io non so come Pasolini intendesse il suo «Io so». Ma dietro quella cantilenante requisitoria, composta sulla partitura anaforica che Émile Zola aveva approntato per lo J’accuse, par quasi di intravedere una nota di umorismo: il riso segreto di chi sta calando in tavola la carta del supremo bluff poetico, l’aerea millanteria di un barone di Münchhausen che si è issato per il codino sul tetto del Palazzo e ne accusa dall’alto gli inquilini, spenzolando le gambe.

A quella litania di «Io so», del resto, Pasolini aveva fatto seguire un elenco ben più folto di specificazioni sulla natura del testo – «progetto di romanzo», intervento «di immaginazione e di finzione» – e sullo statuto del suo autore: «intellettuale e romanziere», «inventore di storie» che non essendo «compromesso nella pratica col potere» e non avendo per definizione «nulla da perdere», potrebbe fare, se solo avesse le prove, quei nomi che i giornalisti e i politici – che invece le prove le hanno – non osano pronunciare.

Il modello di intellettuale disegnato da Pasolini sembra rifatto, più che sulla sagoma di Zola, su quella di un altro parigino, tutto immaginario: il cavalier Dupin dei racconti polizieschi di Edgar Allan Poe. Al pari del protodetective, l’intellettuale pasoliniano è colui che «coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero». Non tanto diversamente, Poe-Dupin aveva tentato di risolvere il mistero di Marie Roget, al secolo Mary Rogers, illuminando con logica nutrita d’immaginazione le notizie apparse sulla stampa e gareggiando con gli inquirenti professionali. Caso limite, scrisse Leonardo Sciascia, di «una investigazione reale assunta e risolta in una dimensione tanto assolutamente razionale da essere fantastica o tanto assolutamente fantastica da essere razionale». Un metodo ben congeniale, come si può intuire, all’autore de “La scomparsa di Majorana” e de “L’affaire Moro”.

Che vi fosse o meno, nell’azzardo pasoliniano, una goccia di goliardia, certo è evaporata senza residui via via che il suo gesto poetico e civile è diventato prima un modello nobile da imitare, poi una maniera da scimmiottare, infine una posa da offrire ai mass media. Nell’ultima stagione italiana, tra la riscrittura di Roberto Saviano e quella del magistrato Antonio Ingroia, l’«Io so» è diventato uno degli stilemi più frequentati della parrhesia; ma è degno di nota (se non di allarme) che la voce di un poeta sia diventata, di passaparola in passaparola, la voce di un pubblico ministero.

Chissà cosa avrebbe pensato Pasolini delle peripezie della sua formula; quanto a Sciascia, si può supporre che in quegli slittamenti progressivi dell’«Io so» avrebbe avvertito, sempre più rimbombante, un’eco familiare. Io so, ma non ho le prove: cos’è, se non l’eterno sibilo dell’inquisitore, la voce del sospetto eretto a metodo di conoscenza e corroborato da una fede feroce?

Per captare nello spettro acustico quel sussurro – il vero basso continuo del potere italiano in tutte le sue forme, religiose e secolari, reazionarie e rivoluzionarie, ortodosse ed eretiche – l’autore di “Morte dell’inquisitore” aveva l’orecchio assoluto: «Non c’è nessuna differenza tra un brigatista rosso e un inquisitore dei tempi dell’Inquisizione spagnola, non più di quanta ve ne fosse tra quest’ultimo e il convinto stalinista degli anni Cinquanta», aveva detto a Marcelle Padovani nel 1984, poco prima di cimentarsi con due nuovi distaccamenti del Sant’Uffizio, la magistratura napoletana del caso Tortora e i comitati di salute pubblica della primavera di Palermo. Le vicende postume dell’«Io so» pasoliniano non sono che una postilla alla storia universale dell’Inquisizione.

Nel 2005 avviene il primo passaggio del testimone – formula che qui va presa molto alla lettera. L’«Io so» di Roberto Saviano, più che introdurre a una lista di rivelazioni, serviva a stabilire l’auctoritas della voce narrante. Racconta Saviano che in preda a un attacco di rabbia civile aveva nelle orecchie «“l’Io so” di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva sino all’assillo. E così invece di setacciare palazzi da far saltare in aria [il riferimento è alla “Vita agra” di Bianciardi, citata poco sopra], sono andato a Casarsa, sulla tomba di Pasolini». La visita alle ceneri del poeta non è solo un tributo sentimentale, come quello di Nanni Moretti in Vespa all’idroscalo di Ostia in “Caro diario”, ma è il passaggio del testimone che consente a Saviano di «articolare il mio io so, l’io so del mio tempo». Eccone uno stralcio:

Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l’odore. L’odore dell’affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove. Io so dove le pagine dei manuali d’economia si dileguano mutando i loro frattali in materia, cose, ferro, tempo e contratti. Io so. E lo sanno le mie prove. Le prove non sono nascoste in nessuna pen drive celata in buche sotto terra. Non ho video compromettenti in garage nascosti in inaccessibili paesini di montagna. Né possiedo documenti ciclostilati dei servizi segreti. Le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con la parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni. Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio […]. Io so qual è la vera costituzione del mio tempo, qual è la ricchezza delle imprese. Io so in che misura ogni pilastro è il sangue degli altri. Io so e ho le prove. Non faccio prigionieri.

Le residue cautele pasoliniane sono bruciate nel fuoco della «verità della parola», di una parola smisurata, tracotante, che «tutto divora e di tutto fa prova». In una prosa stentorea e perentoria – il bellicistico «non faccio prigionieri» torna ben due volte in poche righe – Saviano rivendica per sé l’aura sacrale del testimone. E non già il testimone come testis, come «terzo» informato dei fatti che offre il suo contributo parziale alla ricostruzione della verità sottomettendosi alle regole della procedura, alla ricerca puntuale dei riscontri, alle interrogazioni e alle controinterrogazioni delle parti; piuttosto, il testimone come superstes, come sopravvissuto, colui che ha attraversato anzi ora l’Inferno con tutti e cinque i sensi, ne è tornato vivo e da questa iniziazione riceve l’investitura: la sua missione sarà donare agli uomini il fuoco della Parola.

Le prove di Saviano sono «riprese con le iridi» e «temprate con le emozioni», ed è questa immersione carpocraziana negli abissi del Male che gli consente di vedere i frattali mutati in materia – un’immagine che richiama, capovolgendola, l’illuminazione di Neo, il redentore gnostico della saga fantascientifica di “Matrix”. Se Pasolini ammetteva di non avere neppure indizi, Saviano scavalca questo cruccio affermando di non averne bisogno: le sue prove sono «inconfutabili perché parziali», e quel che chiede al lettore è di far proprie le sue iridi, come in una interminabile soggettiva da film o da videogioco, abolendo ogni distanza gnoseologica e ogni remora critica.

Tutto, a ben vedere, ruota intorno a una paroletta che appare e scompare. L’articolo di Pasolini è noto con il titolo scelto per la pubblicazione in volume, “Il romanzo delle stragi”, diverso da quello con cui era apparso in origine sul Corriere della Sera. Quella parola, «romanzo», che Pasolini sentì il bisogno di aggiungere, fu invece rimossa dopo la prima edizione dal frontespizio di “Gomorra”. «Che cosa stiamo leggendo? Quale genere di narrazione in prima persona? Autobiografia, reportage giornalistico, resoconto di viaggio, inchiesta etnografica o sociale, romanzo di pura fiction, docufiction (o creative non-fiction) o una qualche mescolanza tra questi?», si è chiesto Alessandro Dal Lago.

Le fonti eterogenee di Saviano – conoscenze di prima mano, testimonianze de relato, notizie attinte a fonti giornalistiche o giudiziarie, ricostruzioni romanzate, pure invenzioni letterarie – confluiscono senza distinzioni nel fragore di una sola voce narrante dove «finzione letteraria e funzione documentaria si implicano a ogni pagina». L’«Io so» di Pasolini diventa così un esperienziale ed esistenziale «Io c’ero», reclamando un’autorità che ha il suo archetipo nella figura sacerdotale del sopravvissuto della Shoah, così come si è definita a partire dal processo Eichmann. Elie Wiesel ne diede la formulazione più iperbolica: «Qualunque sopravvissuto ha più da dire intorno a quel che è accaduto di tutti gli storici messi insieme» – proprio perché è superstes e non semplice testis. La rilettura di Primo Levi fatta da Saviano, tutta giocata sull’analogia tra Auschwitz e Gomorra e sull’immedesimazione con la figura del sopravvissuto, è rivelatrice.

Con un primo e decisivo slittamento, dalla denuncia del poeta-detective che mette insieme i tasselli di un puzzle politico siamo approdati al resoconto dello scrittore-testimone tornato dall’Inferno.

Passano poco più di tre anni e la litania pasoliniana è ripresa, in contesto extraletterario, dall’attivista antimafia Sonia Alfano. Figlia di un giornalista ucciso dalla criminalità organizzata, al momento di pronunciare il suo «Io so» Sonia Alfano è candidata alle elezioni europee con l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro e gode del sostegno degli Amici di Beppe Grillo, embrione del Movimento Cinque Stelle che nascerà pochi mesi dopo. L’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia, da lei fondata, convoca per il 28 gennaio 2009 a Roma una manifestazione dei magistrati antimafia ostacolati dai poteri collusi. L’evento si intitola: «Io so». L’invito, letto dalla Alfano in un video sul blog di Grillo, è modellato sul testo pasoliniano:

Io so che in Parlamento siedono mafiosi, amici di mafiosi, servitori di mafiosi, protettori di mafiosi e lo sanno molte Procure d’Italia, molti giornalisti e anche molti italiani, ma non abbastanza. […]
Io so che ci sono molti magistrati corrotti, mafiosi e amici di mafiosi che vanno a pranzo e a cena con i boss e con i cognati dei boss, eppure loro non sono stati puniti, ma premiati e promossi.
Io so che l’Articolo 3 dice che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge. So, invece, che quattro cariche dello Stato hanno fatto di tutto per non farsi processare e sono al di sopra della legge.

Nel mezzo ci sono nomi, cognomi e «fatti»: ipotesi accusatorie di inchieste allora in corso, risultanze processuali parziali, retroscena giornalistici, insieme a reprimende morali e politiche di vario tenore e a deduzioni dal sapore cospiratorio, tutto messo sullo stesso piano da quel ritornello martellante e inflessibile. È un secondo slittamento. Se Saviano aveva bisogno di un pellegrinaggio alla tomba del poeta ucciso per stabilire una filiazione tutta simbolica con la figura del testimone-vittima, Sonia Alfano può rivendicare una parentela di sangue. A nome delle vittime di mafia lancia le sue accuse e chiede al braccio secolare dell’autorità giudiziaria di suffragarle.

Nel 2011 il passaparola pasoliniano raggiunge Walter Veltroni, allora deputato del Partito democratico, che qualche giorno dopo l’anniversario della morte del poeta scrive una lunga lettera al Corriere della Sera:

Caro direttore, io so che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono stati uccisi solo dalla mafia. Io so che lo Stato, o pezzi di esso, ha collaborato, coperto, deviato. […] Io so che la Banda della Magliana, le mafie, terroristi di destra e di sinistra sono stati anche agenzie di pompe funebri violente per disegni orditi da poteri occulti, massonerie deviate, ambienti economici, pezzi di Stato infedeli. […] Io so che è assai probabile che il generale Dalla Chiesa sia stato mandato in Sicilia per farlo uccidere e perché sembrasse che la mafia fosse l’unica responsabile. So che quella notte qualcuno in cerca di carte – quelle del memoriale di Moro? – aprì la sua cassaforte in Prefettura. Forse le stesse mani che mentre ancora via d’Amelio bruciava ebbero la freddezza di prelevare dalla borsa di Paolo Borsellino la sua agenda rossa. Io so che Andreotti e Gelli e molti altri sanno. […] Io so che il potere in Italia, è più opaco che altrove. Leonardo Sciascia diceva che nel nostro Paese «il potere è altrove», non nei governi, non nel Parlamento. So, per la breve esperienza di due anni che ho avuto al governo, che non ci sono cassetti da aprire che non siano già stati svuotati. […] Io so, aveva scritto su questo giornale un grande intellettuale italiano, molti anni fa. Parlava di Piazza Fontana, dell’Italicus e di Piazza della Loggia. È stato ucciso. Io so che non è stato solo Pino Pelosi.

L’«Io so» diventa il filo rosso di un compendioso “bignami” dei misteri d’Italia, una trasvolata mozzafiato su decenni di indagini giornalistiche, giudiziarie e parlamentari a proposito di stragi, mafia, P2, trattativa, caso Moro, fino al mistero nel mistero, il delitto Pasolini. C’è però qui uno slittamento ulteriore: l’accusa proviene infatti dall’interno del Palazzo, e da un uomo che appartiene a entrambe le categorie – politici e giornalisti – che, secondo Pasolini, avrebbero potuto avere accesso alle prove. Solo che Veltroni, entrato nel Palazzo come ministro, dice di aver aperto i cassetti e di averli trovati vuoti; ma la prova che non c’è è diventata per lui – sublime e disinvolto colpo d’ala inquisitorio – una prova che c’era e che è stata sottratta da invisibili mani. Il riferimento al Potere, che nell’ipotesto pasoliniano era un omissis collettivo apposto su nomi e cognomi individuabili, trasmigra in un luogo sempre più indeterminato, e la frase del deputato deluso Sciascia – «il potere è altrove» – si confonde con il motto The truth is out there, «la verità è là fuori» dell’agente speciale Mulder, l’eroe della serie televisiva “X-Files” che aveva un desiderio fanciullesco di credere nelle cospirazioni più immaginose.

Solo un «altrove» fantascientifico, o comunque ultraterreno, può ispirare un testo come questo:

C’è una verità indicibile nelle stanze del potere, un potere non conoscibile dai cittadini che si nasconde, che si sottrae a ogni forma di controllo. La ragion di Stato rischia di diventare un ombrello difensivo sotto il quale proteggere la parte oscura del potere, il suo volto osceno, e la storia occulta dei patti inconfessabili, compresi quella tra Stato e mafia.

Sono le frasi con cui si presenta al lettore “Io so”, il libro-intervista dell’ex magistrato Antonio Ingroia, allora titolare dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, con i giornalisti de Il Fatto Quotidiano Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza. È un testo rivelatore. Mezza dozzina di topoi del linguaggio mistico sono racchiusi in tre righe – le stanze (il “Castello interiore” di Teresa d’Avila), la «non conoscenza» dell’anonimo trecentesco della “Nube”, il deus absconditus, l’occulto, la parte oscura (o pars Diaboli) e soprattutto l’indicibile, questa parola chiave della letteratura mistica che per il tramite della letteratura sulla Shoah è stata portata giù nel terreno della Storia.

Il Potere è, ormai, un’ipostasi divina a cui si giunge per via negativa. E la scala mistica per svelarne i misteri ineffabili è fatta di arresti, perquisizioni, intercettazioni, perizie, interrogatori. La formula inquisitoriale di Pasolini si libera dal bozzolo della poesia e del paradosso, prende finalmente il volo e torna al suo legittimo detentore: il magistrato inquirente; il quale avrebbe non solo la potestà, ma il dovere professionale di fare i nomi, di vagliare gli indizi, di trovare le prove e sottoporle al giudizio, ma che può scegliere di affidare alla “giurisdizione parallela” della letteratura le congetture non suffragate, così da aver le mani libere dalle incombenze della procedura:

Parafrasando Pasolini, io so che lo Stato ha avuto una responsabilità nella morte di Paolo Borsellino, e non mi riferisco soltanto a una responsabilità morale ed etica. Sono convinto che uomini dello Stato hanno avuto una responsabilità penale in quell’eccidio. E le cose emerse negli ultimi anni sul clamoroso – a dir poco – e criminale depistaggio, non fanno che confermare questa convinzione.

Così Ingroia in un’autoepigrafe apposta in calce alla citazione pasoliniana. A seguire, il titolo del primo capitolo: «Al di là delle prove acquisite». È la chiusura del cerchio: dal poeta che si finge inquisitore siamo approdati, di slittamento in slittamento, all’inquisitore che si finge poeta.

da “Il poeta e l’inquisitore. Slittamenti progressivi dell’«Io so»”, di Guido Vitiello, in “Pasolini e Sciascia. Ultimi eretici, a cura di Filippo La Porta, edizioni Marsilio con Centro Studi Pier Paolo Pasolini Casarsa della Delizia, 2021, pagine 192, euro 18

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