Avrei voluto cominciare qui un lungo e noioso discorso sugli effetti di lungo periodo dell’ondata populista culminata nella Brexit e nell’ascesa di Donald Trump nel 2016, sulla loro persistenza e pervasività, a dispetto dell’impressione contraria suscitata nel mondo dalla netta vittoria di Joe Biden, e in Italia dall’insperato arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi.
Avrei voluto partire dal ritiro americano dall’Afghanistan e dal modo in cui Biden lo ha attuato e difeso, due cose su cui l’influenza del predecessore mi è parsa assai significativa e allarmante. Avrei voluto infine collegare tutto questo alla questione della «sinistra illiberale» sollevata nell’ultimo numero dell’Economist.
Mi riferisco all’editoriale in cui il settimanale invita i liberali di destra e di sinistra a resistere all’egemonia populista, senza illudersi di poter carezzare impunemente la tigre nel verso del pelo: gli uni accodandosi al nazionalismo xenofobo e autoritario, gli altri al fanatismo della politica identitaria, della cancel culture e del radicalismo di sinistra in generale.
L’articolo che stavo immaginando sarebbe stato lungo e noioso anzitutto per il gran numero di sottili distinzioni che avrei dovuto fare. Per esempio, sull’ultimo punto, avrei invitato a non confondere la contestazione anche radicale di quelle che l’Economist definisce come le posizioni del «liberalismo classico» in materia di economia con analoghi attacchi ai fondamenti dello stato di diritto e della libertà individuale: cose che non hanno lo stesso peso e non andrebbero messe sullo stesso piatto della bilancia. Direi anzi che l’ambiente più favorevole alla crescita di un dibattito pubblico democratico e pluralista è esattamente quello in cui la stragrande maggioranza condivide i principi fondamentali che garantiscono la libertà di ognuno e si divide su tutto il resto.
Di questo intendevo scrivere, e già cominciavo a organizzare mentalmente la lunga serie di premesse di metodo e di merito necessarie ad arrivare sano e salvo in fondo al ragionamento, quando ho acceso il computer e aperto Twitter, dove era in corso uno di quei tipici spettacoli che da qualche anno prendono regolarmente il posto del dibattito politico, cioè una specie di guerra etnica combattuta in un asilo.
Stesso miscuglio di ostilità preconcetta e odio primitivo, uniti però all’assoluta idiozia del pretesto, del contesto e del sottotesto, nel caso specifico il costoso orologio esibito in foto da un giovane candidato a un consiglio municipale nella lista di Azione (dunque, con tutto il rispetto per i consigli municipali e per il partito di Carlo Calenda, non proprio un uomo destinato a esercitare una straordinaria influenza sull’indirizzo politico del Paese, perlomeno nel prossimo futuro).
Dall’orologio costoso si passava quindi all’incredibile uscita di Matteo Renzi sul reddito di cittadinanza e i giovani che «devono soffrire», e in qualche caso, non ricordo più per quali vie, persino alle foibe (a conferma del fatto che la politica italiana si ripete sempre due volte, la prima in forma di sketch di Avanzi).
Per una volta, non vorrei prendere le parti degli aggrediti né quelle degli aggressori, ma nemmeno ostentare un’impossibile equidistanza. La diffusa cultura del linciaggio che ci circonda ha sempre qualcosa di orrendo in sé, anche quando il suo esito sia il più infantile e ridicolo, e forse relativamente innocuo.
Ora però mi interessa di più sottolineare come sui social network la cosiddetta sinistra, quella che dovrebbe combattere il populismo, sia divisa grosso modo in due tribù, costantemente impegnate nel tentativo di linciarsi a vicenda, con argomenti, toni e modi squisitamente populisti, chiocciolandosi e ritwittandosi tra piccole orde di consanguinei ululanti, nel momento stesso in cui ciascuna delle due bande accusa l’altra di rappresentare la quinta colonna dei populisti (salviniani gli uni, grillini gli altri) e di adottarne anche i deplorevoli metodi, a cominciare da gogna e linciaggi social.
Forse è per questo che in Italia, tutto sommato, la cancel culture non ha (ancora?) particolarmente attecchito, e nemmeno il politicamente corretto: perché in America, come sembra suggerire anche l’Economist, trumpismo e cancel culture sono due diverse forme di intolleranza che si rafforzano a vicenda, opposte e complementari come le due metà di una stessa mela. Mentre qui in Italia, dove gli epigoni e anche i precursori di Trump affollano l’intero spettro politico, giornalistico e intellettuale, abbiamo solo infinite repliche della stessa metà della mela, e nessuna traccia dell’altra mezza.
Basta accendere la tv o sfogliare un giornale per verificare come tutto sia infatti perfettamente dicibile, pressoché ovunque, anche quello che nei paesi civili è giustamente considerato istigazione all’odio e al razzismo. Non così in Italia, dove sulla derisione di handicap, difetti fisici e qualsiasi altro dettaglio legato a sesso, età, etnia, zeppola o altezza dell’avversario sono fiorite carriere e sono nati interi gruppi editoriali, perché non c’è nulla che ci piaccia tanto come darci di gomito mentre sghignazziamo del comune bersaglio.
Capite dunque perché, dopo aver passato soltanto pochi minuti esposto a questo genere di spettacolo, ho avvertito tutta l’inanità dello sforzo che mi accingevo a compiere per argomentare la mia tesi, e mi sono rassegnato a non scrivere l’articolo.